La montagna disincantata di Amir Naderi: le ossessioni del regista iraniano nel suo “Monte” girato in Italia. “Mi sono ispirato al Francesco di Rossellini

L’Agostino (Andrea Sartoretti) di Monte potrebbe essere il Daniel Blake di Ken Loach in chiave medievale, se non avesse una vena ieratica e soprannaturale riflessa per altro anche nello sguardo del regista Amir Naderi. «Io sono Agostino», puntualizza Naderi, la voce leggermente corrosa, lo sguardo di chi annusa l’aria intorno. Altre volte il regista iraniano, classe 1946, ha rivelato un pezzo di sé nelle sue pellicole; in Runner (1985), per esempio, ha raccontato la sua infanzia di espedienti, in Monte la ritrosia ad abbandonare le proprie radici.


Monte (nelle sale dal 24 novembre) racconta la storia di un uomo, Agostino, che vive in un paese di montagna mai lambito dal sole. La mancanza di luce lo priva di ogni cosa: cibo, lucidità, perfino di un figlio, del cui cadavere fan scempio i lupi. In lui non c’è speranza, piuttosto furia, caparbietà e tenacia, l’illogicità di voler vivere dove è nato, quando la natura lo mette in ginocchio e lo copre di un’aura da iettatore . «Sono cresciuto sulla strada, senza padre, né madre – spiega il regista –  A 11 anni certo non mi divertivo a vivere dei lavori che capitavano, ma guardavo avanti. Mi ha allevato una zia materna, che mi ha spinto verso ciò che volevo fare, perché io, per il cinema, bruciavo. A ventitré anni ho girato il mio primo film (Goodbye Friend, 1970, n.d.r.), ma ho capito che non mi bastava e ho tagliato con ciò che mi era più caro, l’Iran, e sono andato in America. Non c’era alcuna questione politica, la mia era solo ambizione, il desiderio di isolarmi e svuotarmi per pensare unicamente al cinema». Chi lo aveva diffidato dal partire era stato l’amico Abbas Kiarostami, amico fraterno di sei anni più grande, scomparso il 4 luglio scorso. «Era una specie di fratello maggiore per me. Abbiamo vissuto a Teheran nella stessa stanza per quattro anni. Parlavamo incessantemente dei nostri sogni e li abbiamo perseguiti con fatica. Niente è successo accidentalmente. Conducevamo una vita claustrofobica e la nostra palestra era la strada». I primi film di Naderi raccontano la quotidianità dei quartieri operai attraverso attori non professionisti: una lotta proletaria silenziosa contro la censura di Stato. «Abbas e io vivevamo in un mondo pieno di artisti, scultori e scrittori ma marginale rispetto al cinema. Tra noi c’era una competizione fortissima, litigavamo ma ci rispettavamo e stimavamo profondamente. Negli ultimi tempi non capivo perché si consumasse in viaggi faticosi, quando era così malato. Mi rispose che la fiamma di una candela è più intensa quando si sta per spegnere. Kiarostami era un genio, molto preciso. Io sono come Agostino con il martello». Agostino inizia la sua furiosa partita contro la montagna cercando di abbatterla: «Ho voluto applicare le stesse condizioni di vita estreme del mio personaggio anche a me e alla mia troupe. Ogni giorno affrontavamo trecento metri di dislivello con il peso di quattro macchine da presa, con cui giravo contemporaneamente la scena. Per forza poi vedevamo dio! E anche quando tutto era pronto, l’insidia ero dietro l’angolo: e se fosse piovuto? Sentivo che la montagna mi era ostile perché la stavo sfidando. Allora la supplicavo all’alba e al tramonto: “Per favore lasciami fare. Se ti colpisco non è perché lo voglio. È perché lo vuole il mio personaggio. Se lui perde perdiamo tutti, ma se lui percepisce la scintilla, possiamo giovarcene”». Monte è girato tra Trentino e Friuli con staff italiano: «Non è stato facile. Gli italiani sono molto sensibili e molto critici. Sanno di cinema e di storia, hanno sempre altre opportunità di lavoro. La fiducia tra di noi è arrivata solo dopo due settimane difficili di lavoro ma abbiamo ottenuto grandi risultati». Tutti i film di Naderi sono intessuti di ossessioni, di dialogo con l’impossibile. «Ogni pellicola è un superamento dei miei limiti. Non sono un eroe ma ho fede in quello che faccio. Non mi interessano le relazioni, ma gli elementi. La montagna di Monte è simile al deserto». Naderi parla di politica attraverso la Natura. Water, Wind, Dust (1989), il film realizzato nel 1989 e da lui più amato, si svolge nel deserto battuto da tempeste di sabbia implacabili. La desolazione da cataclisma è simile a quella degli iraniani privati della loro antica civiltà dalla repressione della rivoluzione islamica. «Conosco il deserto molto bene perché ci sono cresciuto. Quando il protagonista di Runner trova il ghiaccio il suo primo moto è di condividerlo con gli altri perché si risollevino dalla calura infernale».

E, similmente, proprio perché Naderi si sente portatore di una causa più importante ha donato i proventi del premio Jaeger-LeCoultre, assegnato al regista alla scorsa mostra del cinema di Venezia, alle giovane generazioni di cineasti iraniani. Monte è un progetto nato dieci anni fa. Naderi aveva pensato di ambientarlo inizialmente in Giappone, «ma non avevo trovato la montagna adatta. L’ho riconosciuta in Italia, mi sono messo a riscrivere la sceneggiatura e per capire il Medioevo mi sono ispirato a Francesco di Roberto Rossellini». Il Neorealismo italiano, i film d’esordio di Olmi sono stati i fondamenti della sua formazione artistica. Assieme ad altri grandi maestri del cinema, ciascuno a suo modo, soprattutto nelle pellicole in bianco e nero. «Ėjzenštejn e Kurosawa per l’editing; Ozu per i suoi silenzi, Resnais per il suono; Ford per i campi lunghi e i primi piani. Mizoguchi per far capire i sogni». Ma alla fine, da ribelle qual è, ci tiene a sottolineare che l’importante è fare di testa propria. «Bisogna avere originalità e un’ispirazione incosciente. Come Einstein, Da Vinci, Michelangelo, Beethoven. E spingere il mondo più in là».
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