Un Malick taroccato: “Knight of cups” malato di eccessivo esistenzialismo

Su youtube circola un video impietoso ma irresistibile, Se Terrence Malick avesse diretto Zoolander – segnalato dal nostro infallibile Mabuse -, in cui Ben Stiller, nei panni di Derek Zoolander, si interroga sul senso della vita palleggiandosela con Owen Wilson. In mezzo, una sfilza di topoi malickiani: creste di alberi appaiono dal basso nel girotondo della macchina da presa, magmi ribollono, cellule si gemmano.
E così a malincuore, dopo aver visto Knight of cups, si dà ragione all’attore, comico, regista newyorkese che si fa beffe dell’eccesso esistenzialista impadronitosi di Malick. La vicenda di Rick (Christian Bale), autore americano di commedie di successo, caduto improvvisamente in una crisi interiore tanto profonda da anestetizzarlo nei confronti della vita sociale e delle passioni amorose, par quasi una giaculatoria delle domande cui l’umanità non ha ancora dato risposta. E, guarda caso, non ci riesce nemmeno il protagonista facendosi fare i tarocchi (da qui il titolo del film, Il Cavaliere di coppe) da una chiromante . Ai titoli di coda si spera ancora in una rivendicazione autoironica da parte del maestro che salti fuori col cappellaccio western per rassicurarci di non essere stato ingoiato da una setta o dagli extraterrestri. Stiller nella sua parodia ci ha risparmiato le ormai frequenti carole – con cui aveva tempestato già To the wonder (2012) – di figure femminili longilinee ed eleganti, eseguite preferibilmente sulla battigia, mentre il mare spumeggia e una qualsiasi onda è sufficiente a fare capitolare i nostri fragili corpi. Già i dinosauri in L’albero della vita erano stati le colonne d’ercole che avevano pungolato molti dentini avvelenati. Ma in quel film sull’intollerabilità di una perdita indicibile come quella di un figlio erano ancora “belle e smodate ambizioni”, come aveva scritto l’occhio lungo di Francesco Piccolo proprio sulla Domenica (vedi strillo in alto).


Terrence Malick ha sempre avuto a che fare con materiale che in mano a chiunque altro sarebbe finito nella categoria del neomelodico: voci fuori campo appoggiate a concetti con la c maiuscola: l’insensatezza della guerra, la ferocia di certi lutti, l’istinto animale che prevarica l’animo umano, la potenza incommensurabile della natura (il film inizia con un terremoto). Eppure in mano alla sua statura diventavano capolavori capaci, almeno per un minuto, di far luccicare gli occhi anche ai più cinici.
Knight of cups in qualche fotogramma è ancora in grado di trascinare lo spettatore nell’inquietudine che diventa arte, come necessità di trasmettere disagio, negatività che crea gli anticorpi. I clochard che filma anche con immagini di pessima qualità, forse per il pudore di non farli sentire fenomeni da baraccone riprendendoli con una macchina professionale, sono skándalon, la pietra su cui inciampa la nostra coscienza sporca. Della loro fragilità e sofferenza Malick aveva riempito Voyage of Time, il Superquark presentato in Concorso alla scorsa edizione della Mostra di Venezia. Il naufragio retorico, che aveva provocato l’indignazione della critica, era stato smorzato dalla voce guida di Cate Blanchett.
Che anche in quest’ultima pellicola non è mai querula, seppure nei difficili panni di una donna che affronta un abbandono. Non risollevano la situazione nemmeno altre ottime attrici come Natalie Portman (Elisabeth), contagiata dall’infelicità di Rick, e Freida Pinto, che appare come una meteora. Le figure femminili hanno grazia e fascino, e Malick non ne nasconde la sensualità, usata come monito a rifuggire le apparenze. Ma a volte le inquadrature son così insistite che suggeriscono l’inverso, ovvero una certa morbosità del regista. Ci si chiede perché l’autore di La rabbia giovane (1973) e La sottile linea rossa (1998) in venticinque anni abbia girato tre ottimi film e nell’ultimo periodo si sia accanito ad annacquare la sua poesia finendo ai tarocchi.