La Corte: l’ottimo Luchini racconta quanto i nostri giudizi cambiano per pregiudizi e sentimenti

In mezzo a brocardi, codicilli e al massacro di una bimba a colpi di anfibio vale solo la razionalità della legge e, a volte di più, l’irrazionalità dell’amore. Christian Vincent ne La Corte rende eccezionali riti e sentimenti quotidiani, esplicitati durante il giudizio di un terribile delitto, attraverso un’acuta sceneggiatura – scritta dallo stesso Vincent, meritandosi un premio alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia -, illuminata dalla sottile interpretazione di Fabrice Luchini (migliore attore sempre a Venezia). Il connubio tra regista e attore era già nato nel 1990, quando Vincent lo aveva diretto ne La timida (La discrète), film che ragionava sull’impossibilità di conoscere l’animo umano. Ne La Corte il giudice Michel Racine (Fabrice Luchini) è presidente – come non smette mai di precisare con sorrisetto infingardo – di Corte d’assise che deve giudicare la responsabilità di un padre per l’uccisione di una bambina di sette mesi.
Quando inizia l’udienza Racine è solo istituzione: l’uomo tarlato dall’influenza – come la mela visitata da un verme che mangia nella sua stanzetta dall’albergo – è cancellato. Non esistono più le sue angustie di salute – un medico amico deve fargli un’iniezione potentissima per metterlo in piedi -, personali -la moglie ha chiesto il divorzio e l’ha sfrattato di casa – e la rabbia che prova per il collega e l’avvocato che si fanno beffe delle sue avversità deridendolo e calunniandolo nell’intimità di un bagno, senza sapere che lui li ascolta.
L’ermellino – L’hermine è il titolo originale del film – che indossa è un simbolo che lo porta a essere altro da sé nel rispetto meticoloso della forma, forma è sostanza, imposta a se stesso e al condannato, Martial Beclin (Victor Pontecorvo), nonostante quest’ultimo sia in evidente sofferenza. «Non ho ucciso mia figlia» è l’unica frase che pronuncia in tutto il processo. Oltre al fatto che il disagio economico (è disoccupato) e sociale in cui ha vissuto non lo abbiano educato alle convenzioni. Racine lo riprende, rigido: mentre declina le sue generalità deve rivolgere lo sguardo alla Corte. Reclama lo stesso rispetto anche dall’avvocato della difesa, che continua ad assentarsi per rispondere al telefonino. Questo suo essere inflessibile è in fondo una suprema forma di eguaglianza.


Racine è chiamato il giudice a due cifre perché le sue condanne non sono mai inferiori ai dieci anni; a suscitare l’antipatia di chi gli sta vicino non è il fanatismo con cui condisce l’estraneità a tutto e tutti, in ossequio al suo ruolo, piuttosto quel modo di mostrare la dentatura quasi fosse il ringhio di un felino, quel suo essere impassibile e puntuto anche nel momento di pathos massimo in cui la madre della piccola vittima, Coralie Marciano (Sophie-Marie Larrouy), descrive un’esistenza di stenti e marginalità. Tanto che si insinua il dubbio che il marito la stia coprendo. Ma Racine è un magistrato e non uno psicologo, e se anche rimane colpito dall’avversione per la sua freddezza, soprassiede in nome della Giustizia. Ricorda questo suo essere faticosamente super partes il professore di tedesco del bellissimo Class enemy (2014) di Rok Bicek, accusato di aver indotto al suicidio con la sua severità un’allieva. Di fronte ai ragazzi, scandalizzati dal fatto che voglia continuare a fare lezione all’indomani della tragedia, l’insegnante risponde che i rituali sono l’unica cosa che distingue l’uomo dagli animali. Mentre Racine sussiegosamente estrae a sorte i giurati, ha un’esitazione nel pronunciare il nome di uno di essi, Ditte Lorensen-Coteret (Sidse Babett Knudsen). C’è qualcosa che la professionalità del magistrato, nonostante l’allenamento di anni, non riesce a padroneggiare. Quella donna, Ditte, gli aveva regalato l’unico atto di calore della sua vita, accarezzandogli la mano accarezzata dopo un grave incidente, una gratuità che aveva aperto la strada alla passione. Il giudice d’un tratto si sbarazza della sua terzietà e le chiede di incontrarsi. Racconta di non voler più rinunciare alla felicità di un’emozione così profonda, mai provata forse anche perché lui stesso non l’aveva mai fatta sbocciare negli altri. La si può capire, in fondo, la moglie di Racine, stremata da quel fare ombroso e saccente. Ditte però respinge la dichiarazione. Lei, anestesista, aveva fatto solo il suo lavoro, un mero gesto di piccola umanità unita al dovere di verificare la condizione di salute del paziente. O no? La Corte parla dell’insondabilità della personalità, propria e altrui, del pregiudizio e del reazioni a contatto con i sentimenti autentici e primari. Tradisce una certa gravità, non priva però di piccole situazioni comiche, come quando la domestica insegue il magistrato con lo straccio per pulire le impronte, cancellandone d’un baleno la statura professionale. E Luchini è bravissimo a esaltare le pieghe della scrittura, punto forte di tante pellicole francesi, che con un budget minimo, perché girate in interno, vanno fortissimo al botteghino anche Oltralpe.

Basti pensare a La cena dei cretini di Francis Veber (1998), o a Quasi amici – Intouchables (Intouchables) di Olivier Nakache e Éric Toledano del 2011, in cui certa leggerezza intelligente sa andare a braccetto con il dileggio della nostra banalità.

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