Unico italiano in gara Rosi ha scosso con il doc sugli sbarchi
a Lampedusa. Brava la Huppert, bello il film tunisino
Pietro Bartolo non si è mai abituato a fare le autopsie dei clandestini che sbarcano a Lampedusa, anche se da più di vent’anni è medico di primo soccorso dei fantasmi che sgusciano dalle carrette del mare. È uno dei momenti più intensi di Fuocoammare di Gianfranco Rosi (il 18 febbraio nelle sale), unico film italiano in concorso, proiettato ieri alla 66esima edizione della Berlinale. Rosi per un anno è rimasto nell’isola siciliana, sorvegliando le scorribande di un dodicenne, Samuele Pucillo, tra tiri con la fionda, petardi, caccia agli uccelli e una comicità involontaria, che è la corrente di tutto il film. All’immigrazione, alle sue vittime, Rosi arriva di taglio attraverso la radio che fa il conteggio dei morti dell’ultimo barcone affondato, assieme alle notizie della sospensione dell’elettricità e ai calamari pescati nello stesso mare in cui sono morti almeno 15mila profughi, come spiegano i titoli di testa. Il regista, nato ad Asmara, con passaporto italiano e americano, lambisce i fatti come l’acqua fa con la terra. Arriva anche il pugno nello stomaco dei corpi senza vita trasportati nei sacchi, delle braccia inermi come i burattini, dei pianti delle donne. Ma l’effetto non è quello di straniamento dei telegiornali eCdi indifferenza per eccesso di carico emotivo. Ci si chiede se sia lecito appropriarsi del segreto della morte nell’ impossibilità dei profughi di difendere la propria intimità dal nostro occhio.
Sì, perché Rosi ci arriva in punta di piedi, proprio come un’onda lunga e perché le coscienze si bucano solo con i fatti, potenti come il fuocoammare, quando settant’anni fa il mare diventava rosso di guerra. Rosi non è nuovo alle immersioni tra gli invisibili. Lo ha fatto con gli indigeni e i viaggiatori del Gange in Boatman (1993), gli homeless americani in un ex zona militarizzata; con Below the sea level (2008); le confessioni (anche contestate) di un pentito del narcotraffico americano in El sicario-Room 164. Sacro GRA, Leone d’oro nel 2013, è infine una panoramica su un campionario umano, tra il patologico e il pittoresco, che si annida sul grande raccordo anulare romano. L’applauso caldo della critica e del pubblico e la sensibilità della rassegna tedesca per i temi politici – l’anno scorso l’Orso d’oro andò a Taxi di Jafar Panahi in sostegno della libertà di espressione in Iran – potrebbero dare risalto all’abilità del regista che sa restituire con forza l’eccezionalità dei suoi soggetti. Un premio lo meriterebbe anche Isabelle Huppert, nel ruolo di Nathalie, protagonista di L’avenir di Mia Hansen-Løve, regista che a soli 34 anni si è distinta per la qualità dei suoi film, non ultimo il ritratto impalpabile di una passione giovanile in Un amore di gioventù (2012). Huppert, professoressa di filosofia in una scuola superiore di Parigi, si trova a vedere stravolti i punti fermi della sua esistenza. I figli son diventati adulti, il marito chiede il divorzio, la madre muore e infine viene contestata dall’allievo prediletto. Con piccoli dettagli ironici – l’eredità di un gatto obeso, le schermaglie con le ridicolaggini dell’ex marito – rendono avvincente una trama quotidiana che altrimenti non avrebbe nulla di spettacolare. Questo soprattutto grazie alla recitazione di Huppert, piena di dignità e orgoglio. Un bel film è anche Inhebbek Hedi, primo lungometraggio di Mohamed Ben Attia, in cui i vincoli familiari e tradizionali, che minano la vita privata di un giovane Oblomov tunisino forzato al matrimonio, sono lo specchio della mancanza di libertà politica del Paese, questione che rimane sottotraccia fino alla fine del film.
Per il resto la Berlinale – che si è inaugurata con il gustoso Ave, Cesare! sulla Hollywood degli anni Cinquanta, in cui i fratelli Coen si fanno beffe anche dell’anti maccartismo – per ora sta facendo ciò che un grande festival deve fare, rispettare i gusti più diversi. Peccato che lo abbia fatto con pellicole non degne di stare in concorso. Midnight special di Jeff Nichols non annoia, ma non regge la storia del bambino messianico (Jaeden Lieberher), rincorso dall’Fbi, che fa crepare le case e cadere i satelliti per rivelare che il paradiso degli extra-terresti è uguale al Bosco Verticale progettato da Stefano Boeri a Milano. Sull’onda dello sciamanesimo anche Boris san Béatrice del canadese Denis Côté, in cui un presunto dio con la faccia del pur bravo Denis Lavant fa vivere un inferno visionario a un marito innamorato ma traditore. Pretenzioso è dir poco. Infine Mahana di Lee Tamahori è un Padre padrone edulcorato in chiave Casa nella prateria. Un’occasione sprecata per raccontare il mondo dei maori.
cristinabattocletti.blog.ilsole24ore.com
Un bel film è anche Inhebbek Hedi, primo lungometraggio di Mohamed Ben Attia, in cui i vincoli familiari e tradizionali, che minano la vita privata di un giovane Oblomov tunisino forzato al matrimonio, sono lo specchio della mancanza di libertà politica del Paese, questione che rimane sottotraccia fino alla fine del film. Per il resto la Berlinale – che si è inaugurata con il gustoso Ave, Cesare! sulla Hollywood degli anni Cinquanta, in cui i fratelli Coen si fanno beffe anche dell’anti maccartismo – per ora sta facendo ciò che un grande festival deve fare, rispettare i gusti più diversi. Peccato che lo abbia fatto con pellicole non degne di stare in concorso. Midnight special di Jeff Nichols non annoia, ma non regge la storia del bambino messianico (Jaeden Lieberher), rincorso dall’Fbi, che fa crepare le case e cadere i satelliti per rivelare che il paradiso degli extra-terrestri come lui è parente del Bosco Verticale progettato da Stefano Boeri a Milano. Sull’onda dello sciamanesimo anche Boris san Béatrice del canadese Denis Côté, in cui un presunto dio con la faccia del pur bravo Denis Lavant fa vivere un inferno visionario a un marito innamorato ma traditore. Pretenzioso è dir poco. Infine Mahana di Lee Tamahori è un Padre padrone edulcorato in chiave Casa nella prateria. Un’occasione sprecata per raccontare il mondo dei maori.
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