Una riflessione sul concerto di Muti a Redipuglia

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Sarebbe stato contento il parmigiano che scrisse il “Requiem” più laico della musica sacra, quando domenica scorsa a Redipuglia – durante il concerto organizzato dal Ravenna Festival in coproduzione con Mittelfest – Riccardo Muti ha sollevato 365 tra musicisti e coristi in uno dei “Dies Irae” più frementi che Verdi si potesse augurare. Le voci e le note che evocavano il giorno di tenebre e caligine quella sera ruggivano come un moto di indignazione contro il conflitto scellerato accesosi cento anni fa a Sarajevo, anche se il concerto era dedicato alle vittime di tutte le guerre.
Era tangibile la comunione tra gli oltre 100mila caduti che ora riposano nel Sacrario (più di 60mila non hanno nome), ognuno dei quali aveva risposto «Presente!» alla chiamata alle armi – come è riportato più volte sui 1200 scalini della gradinata – e gli ottomila spettatori venuti a onorare la loro memoria. Perché il concerto di Muti questo è stato, un inchinare la testa ai tanti più o meno giovani che hanno dato la vita per chi li stava in quel momento ad ascoltare; alcuni di essi sono morti ignari di aver tramandato il proprio nome, come ricorda un commento toccante, tra i tanti di Facebook, di una nipote, Clara Fradiani: «Grazie. Mio nonno riposa là senza sapere di avere un figlio».
La musica quella sera ha fatto davvero da ponte per unire i popoli, come voleva Muti, che con generosità ha diretto professionisti provenienti da venti Paesi diversi, molti dei quali aveva incontrato poche ore prima dell’esecuzione. C’erano, naturalmente «i suoi»: l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e le prime parti dei Chicago Symphony Orchestra. E le vecchie conoscenze tra i componenti dei Berliner Philharmoniker, l’Orchestra del Teatro Verdi di Trieste, l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo, l’Orchestre National de France, l’Orchestre Symphonique du Théatre Royal de La Monnaie, la Philharmonia Orchestra e la Wiener Philharmoniker.
E i solisti, nomi che sono una sicurezza, il soprano Tatiana Serjan, il mezzosoprano Daniela Barcellona, il tenore Saimir Pirgu ed il basso Riccardo Zanellato. Ma anche i giovanissimi, categoria cui il maestro è sempre molto attento, con cui ha provato per la prima volta quel giorno, come la European Spirit of Youth Orchestra e gli allievi dei Conservatori «Giuseppe Tartini» di Trieste e «Jacopo Tomadini» di Udine. E ancora, le compagini corali provenienti dal Friuli Venezia Giulia, Lubiana, Zagabria e Budapest, coordinate da Cristiano Dell’Oste. Ed è riuscito a far vibrare tutti gli elementi, rallentando magari e passando sopra ad alcune imperfezioni, che non hanno toccato il pubblico silente, all’unisono col Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il Presidente sloveno, Borut Pahor, il Presidente croato, Ivo Josipovic e il Presidente del Consiglio Federale austriaco, Ana Blatnik. E assieme a chi sentiva la musica in diretta su Rai 1 e Radio Rai 3 – il “Requiem” verrà replicato il 1° agosto su Rai 1, in seconda serata-, in una penisola unita dai Tweet: «La musica di Verdi sublima tutto e mi rende davvero italiano» (Marino Tomat), «Mio figlio segue il “Requiem” sulla partitura. Nazioni diverse unite dalle stesse note» (Manuela Croatto) e Dacia Maraini: «Vorrei che la televisione desse più spesso di queste gioie».
Muti e il Ravenna Festival non sono nuovi a operazioni di coesione fra popoli con le «Vie dell’amicizia», che quest’anno ha come sottotitolo «1914-2014. Cent’anni dalla Grande Guerra». Hanno iniziato nel 1997 in una Sarajevo in ginocchio dopo l’assedio, passando per le città ferite del mondo – per citarne solo alcune, Gerusalemme, Ground Zero di New York, Il Cairo -. Non ultima Trieste nel 2010 per ricementare un’amicizia che era scricchiolata tra Slovenia, Croazia e Italia per vecchie lacerazioni legate alla Seconda Guerra mondiale. Infatti il giorno dopo, il “Requiem” è stato ripetuto a Lubiana, per ribadire la fratellanza e per ricordare Carlos Kleiber nel decennale della scomparsa. (vedi, Harvey Sachs, «Domenica» 6 luglio, pag.35). I cori dell’Ana di Udine e la fanfara della Brigata Alpina Cadore, le luci che riempivano di rosso e tricolore il cimitero scavato nella collina carsica hanno colpito anche l’anima delle scorze più dure. Scendendo la collina, con in testa le note del “Silenzio”, cui Muti si è inchinato, una targa avvertiva: «O viventi che uscite, se non vi sentite più sereno e più gagliardo l’animo voi sarete venuti invano». Più sereni forse all’idea di aver dedicato almeno un pensiero ai 15 milioni di soldati che morirono in una guerra che non avevano voluto. Tanti furono i disertori, i suicidi prima di andare in battaglia, che appartenevano alla maggioranza pacifista. L’Italia traccheggiò un anno ma poi inviò le sue truppe rabberciate a ingrossare la carneficina cui parteciparono 120 milioni di uomini. 34 milioni furono feriti e 8 milioni rimasero mutilati e invalidi. Fu la scontentezza di questi ultimi – cui nessuno rese omaggio quando tornarono – che soffiò sulle braci del secondo conflitto mondiale. Che guerra chiama guerra e la musica, come sa Muti, può aiutare a spegnere.