Il film di Guiraudie è un giallo calato in un ambiente gay libertino. Ma l'aspetto psicologico è più avvincente delle nudità. Questa la mia recensione pubblicata numero di oggi di "Domenica" del Sole 24 Ore
Scandaloso per la nudità maschile disinvolta, raramente interrotta da abiti svelti, portata senza infingimenti sia dai fisici prestanti, che da quelli molli, tozzi, appesantiti dalla vita sedentaria. Scandaloso per quei rapporti omosessuali, consumati alla luce del sole sulla riva di un lago francese imprecisato, dettati da un desiderio covato, continuo, espresso verso il primo, o quasi, avventore desideroso di coglierlo. Per questo Lo sconosciuto del lago – quarto lungometraggio con cui Alain Guiraudie si è aggiudicato il premio per la regia nella sezione "Un certain regard" quest’anno a Cannes e la Palma Queer – è stato definito scandaloso. Ma l’aggettivo non calza se skàndalon è l’ostacolo, la pietra che ci fa inciampare. Il film di Guiraudie, più che turbare la nostra morale, è un affresco sulla parte libertina dell’universo gay, estrema rispetto a quello delle coppie solide che conosciamo anche grazie a I ragazzi stanno bene di Lisa Cholodenko o al sentimento esclusivo di I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee (2005). Un contesto punteggiato da incontri fugaci, ma passionali, che in qualche modo ricordano Intimacy-Intimità (2001) di Patrice Chéreau per la volontà di cogliere l’attimo, senza svelare null’altro se non l’istinto corporeo.
Uno spaccato psicologico, non privo di spunti comici tra guardoni scoperti, quasi naïf, e scene di gelosia che rasentano la psicopatologia. L’intento deliberato del regista – che da sempre esplora l’universo omosessuale, cui appartiene senza sbandierarlo –, è quello di «provare le fitte dolorose del desiderio, renderle palpabili». E nulla infatti è nascosto allo sguardo dello spettatore – il film è vietato ai minori di 18 anni – nella ricerca del piacere inseguita dal protagonista, l’efebico e ingenuo Franck (Pierre Deladonchamps) e i partner che si uniscono ludicamente a lui, nell’intento di una reciproca soddisfazione dei sensi. Ciascuno arriva sulla riva del lago senza darsi appuntamento e si spoglia con il proposito dichiarato di "rimorchiare". La macchina da presa coglie senza morbosità le nudità dei bagnanti – tra cui lo stesso regista in un autoironico cameo –: i genitali scoperti sono una presenza costante, su cui il regista non si sofferma con gusto provocatorio o prurito ossessivo. Vi dedica primi piani durante gli amplessi, come fa per un braccio che si immerge nel lago durante una falcata a stile libero. Il fisico non certo aitante di Henri (Patrick d’Assumçao), confuso uomo di mezza età, lasciato dalla fidanzata, attratto da Franck, con un passato occasionalmente bisessuale, ha la stessa dignità di quello scolpito di Michel (Christophe Paou), vero oggetto di cupidigia del lido. Attorno alla sua figura e a quella di Franck si intreccia un noir, legato a un misterioso annegamento. Il regista francese sembra mettere da parte il lato edonistico e onirico – si pensi a Le roi de l’évasion (2009), in cui un gay di mezz’età si innamora di una teenager – per privilegiare l’aspetto realistico (a conferma di questa scelta la mancanza di musica per lasciare il posto alla presa sonora diretta) e metterlo a servizio di un giallo. Di film scandalosi, che hanno fatto inciampare la morale, è piena (per fortuna) la storia del cinema, da L’âge d’or (1930) di Luis Buñuel, a Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci a L’ultima tentazione di Cristo (1988) di Martin Scorsese, a Antichrist (2009) di Lars von Trier. Lo sconosciuto del lago più che scandalizzare offre l’occasione di allargare i confini del grande schermo, rimuovere l’etichetta a pellicole facilmente classificabili come "di genere". Guiraudie lavora sullo stesso solco tracciato da certe opere di Gus van Sant e Christophe Honoré, nell’esplorazione della sessualità di François Ozon, nella trasgressione di John Waters e nella narrazione più scanzonata e a tratti ridanciana di Ferzan Ozpetek e Pedro Almodovar. Il ventiquatrenne Xavier Dolan ha presentato alla scorsa edizione della Mostra del Cinema (peccato non abbia portato a casa nessun premio) Tom alla fattoria, un thriller psicologico che regge fino alla fine, ambientato in una campagna da incubo, in cui si racconta, senza scene sessuali esplicite, l’assoggettamento psicologico di un giovane pubblicitario al violento fratello del compagno appena scomparso. Ne Lo sconosciuto del lago la sensualità è invece terragna e manifesta, e anche se il regista ha spiegato di essere stato ispirato da un frase di Georges Bataille, «l’erotismo è l’approvazione della vita fin dentro la morte», questo aspetto passa in secondo piano. Più della lussuria, non priva di tenerezze, che si manifesta tra i cespugli, è interessante il tratto psicologico dei personaggi. Quello infantile di Franck, schiavo dei richiami del_l’eros, nonostante su Michel cada l’ombra lunga dell’omicidio. O il profilo barbaro, elementare, sanguigno di quest’ultimo, volto a seguire gli istinti e ad apparire nello stesso tempo urbano; o il tratto di irresponsabilità leggera, dissacrante, animalesca che riporta tutti i bagnanti a inseguire la propria libido all’indomani del ritrovamento di un cadavere. Un’indifferenza, come rimarca il commissario che indaga sul caso, che va oltre all’egoismo impietoso e si spinge ai confini dell’immoralità. È questa la chiave "scandalosa" della pellicola, più degli accoppiamenti, sicuramente muscolari e senza veli. [COPYRIGHT]© RIPRODUZIONE RISERVATA