Il Leone coraggioso sul raccordo. Niente a Dolan, peccato

Un Leone che corre a scovare i microcosmi invisibili, fioriti attorno ai settanta chilometri della più lunga autostrada urbana d’Italia, che sa amare il pescatore di anguille, il nobile piemontese decaduto, il proprietario di una villa che ha fatto del kitsch un punto d’onore, assieme a tutti i personaggi buffi e naif, incastonati in Sacro GRA di Gianfranco Rosi, è un Leone coraggioso.

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Soprattutto perché trionfa il documentario, un rivolo neorealista a rintracciare il riscatto di un’Italia, bistrattata dalla più feroce crisi economica del dopoguerra, nella bruttezza e nell’anonimato dei volti e delle vite che costellano il grande raccordo anulare di Roma, un budello di asfalto voluto dall’entusiasmo post-bellico, nel cui traffico impazziscono quotidianamente migliaia di automobilisti. Il regista italoamericano di stanza a New York, classe ’64, nato ad Asmara, – già autore di Boatman (1993), sui barcaioli indiani, Below sea level (2008), il deserto americano degli emarginati e El sicario-room 164 (2010), il Messico dei killer del narcotraffico – ha seguito per tre anni personaggi e luoghi, individuati nel libro del paesaggista Nicolò Bassetti, in un habitat a volte più simile a una foresta pluviale con le sue palme – divorate dai parassiti, auscultate da un botanico che ne registra l’urlo di dolore – o a una campagna montenegrina con le pecore che pascolano in ogni dove, piuttosto che a una metropoli di uno dei Paesi più industrializzati del mondo. Sacro Gra è la cartina di tornasole di questa Italia contraddittoria, abitata da figure bizzarre e ingenue, per cui l’abuso e la corruzione sono un male necessario, in cui il cattivo gusto convive con le eccellenze della moda, la tecnologia, il genio architettonico e artistico. Bernardo Bertolucci, presidente della giuria della 70ª Mostra del Cinema di Venezia, ha tenuto così fede al suo impegno di voler stupire, confermato anche dall’assegnazione del Gran premio della Giuria a Stray Dogs di Tsai Ming Liang, già Leone d’oro con Vive l’amour nel 1994. Il regista taiwanese, i cui film sono spesso nelle vetrine delle rassegne più prestigiose, con i suoi "cani randagi" ha come al solito diviso la critica tra estimatori e detrattori, che lo considerano un furbo collazionatore di immagini pubblicitarie. Stray dogs non ha svolgimento, è fatto di inquadrature compiaciute, che si fermano a lungo – anche un quarto d’ora – sullo stesso soggetto, incuranti della tenuta del pubblico, conquistato però dalla poesia fotografica. Cane randagio è l’uomo privato della dignità il cui mestiere può essere quello di portare un cartello pubblicitario in mezzo al traffico, i cui figli vagano in un ipermercato, topi di anfratti selvaggi, strappati alla cementificazione delle città asiatiche. L’argento l’hanno conquistato le viscere nere della società, la mostruosità dell’incesto e della pedofilia dietro l’apparenza patinata di un padre, nonno di famiglia, compassionevole e dignitoso, protagonista di Miss Violence di Alexandros Avranas. Un film che sin dal principio scopre carte intollerabili, come il suicidio dell’undicenne Angeliki (Chloe Bolota) nel giorno del suo compleanno. Un gesto che si spiegherà man mano che il carosello della bestialità affiora nei comportamenti del patriarca, violentatore e lenone delle proprie creature, Themis Panou, che ha conquistato anche la coppa Volpi come migliore interprete maschile. Un premio importante ad Avranas – che si inscrive nell’inquietante corrente del cinema greco iniziata con Dogtooth (2009) e Alps (2011) di Yorgos Lanthimos e Attenberg (2010) di Athina Rachel Tsangari – è una scelta incentrata sul contenuto, perché il film – il secondo dopo Without (2008) del regista greco –, tecnicamente piatto, nella seconda parte cade eccedendo nell’orrore. Nella stessa linea va il seppur minore premio Speciale della Giuria dato a La moglie dell’agente di polizia di Philip Gröning che in tre ore, scadenzate in quasi sessanta quadri, delinea un nucleo familiare composto da padre, madre e figlioletta, illuminato in momenti di armonia quotidiana, intristita forse solo da un contesto intellettualmente arido, quasi irriso nella sua banalità. Fino a quando a macchiare la felicità non compaiono lividi sul corpo della donna, un gesto d’ira dell’agente, il terrore e l’angoscia di una violenza domestica, mai esplicitata, che monta e da cui difficilmente ci si può proteggere. Un’opera meno limpida del precedente Il grande silenzio (2005) sulla vita dei monaci certosini, ma la cui spirale angosciosa rimane indelebile nell’immaginario. La coppa Volpi per la miglior attrice è di Elena Cotta, coprotagonista assieme a Emma Dante dell’onirico e visionario film Via Castellana Bandiera, che ha segnato l’esordio al cinema della regista palermitana. Una parte delicata, quella di Cotta – attrice teatrale 82enne, icona dei grandi sceneggiati televisivi, madre di Greta Scacchi in Looking for Alibrandi (2000) –, fatta di sguardi incaponiti, selvaggi e fieri in una sfida assurda e illogica: due donne alla guida delle loro automobili che non cedono il passo l’una all’altra, bloccando il traffico. Attorno germogliano vicende e personaggi, che sbucano dalle case attigue, dipingendo l’umanità a suo modo generosa, passionale e arcaica di una favola noir, allegoria di una terra, la Sicilia, perduta nella sua bellezza. Un premio che sarebbe calzato a pennello anche per Judi Dench, attempata madre irlandese in cerca di un figlio, partorito da adolescente nel 1952 e dato in adozione a una coppia di americani dalle suore, cui la ragazza era stata affidata. Una storia vera, sceneggiata da Jeff Pope e da Steve Coogan, anche bravo interprete del personaggio del giornalista, fondamentale per le ricerche del figlio illegittimo. Il film del regista inglese – che si è conquistato il premio Brian dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti per lo scetticismo e lo humor antireligioso di Coogan – ha ricevuto il premio per la miglior sceneggiatura, ma aveva già incamerato gli applausi unanimi ed entusiastici della critica per la perfetta miscellanea di comicità, capacità melodrammatica, di regia e di scrittura che ci ha restituito il Frears dei tempi migliori. Un film che è stata una boccata di ossigeno in una rassegna, quasi sempre di buon livello, ma molto autoriale, un po’ fané e angosciosa, dove si è sentita la mancanza di una commedia in competizione. Peccato che nulla sia andato a Xavier Dolan, che con i suoi ventiquattro anni e cinque film alle spalle, era il più giovane concorrente di tutti i tempi in una kermesse di livello. Un Leone a un autore nato nel 1989 sarebbe stato un gesto di rottura in questa Italia inchiodata al reparto geriatria e in fondo il suo Tom alla fattoria, pur senza la forza dirompente di Prima della rivoluzione, che Bertolucci aveva girato nel 1964 a 23 anni, è un thriller psicologico ben orchestrato con personaggi insoliti, che regge fino alla fine