La mostra su Antonioni vale una gita a Ferrara

Non c'è fretta. La mostra che Ferrara, città natale di Michelangelo Antonioni (1912-2007), dedica al regista dura fino al 9 giugno, ma vale la pena programmare una gita nella città emiliana solo per trascorre due o tre ore pensate camminando nei locali dell'esposizione. Da "Lo sguardo di Michelangelo Antonioni", così si chiama la mostra, emerge non solo il profilo intellettuale, ma quello umano dell'artista ed è questo il valore aggiunto per cui val la pena raggiungere Ferrara.

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Vi sono i documentari d'esordio, da "Gente del Po" a "N.U. Nettezza urbana", e i film che l'hanno reso famoso, da "Zabriskie point" (ecco la scena finale  http://www.youtube.com/watch?v=FqzQNd8SHig) a "Professione reporter", alla trilogia dell'incomunicabilità: "L'avventura" (http://www.youtube.com/watch?v=7HsBUYjwNX4), "La notte", "L'eclisse" (http://www.youtube.com/watch?v=oSqhOzdTG-g), a "Il deserto rosso" (Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 1964) e "Blow-up" (Palma d'oro a Cannes nel 1967). Alcuni di essi proiettati a spezzoni sulle pareti, altri documentati con foto e riflessioni. Vi sono poi le lettere delle sue muse, Lucia Bosè, Monica Vitti, dei suoi attori, registi, amici.

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Colpisce un breve dattiloscritto di Fellini in cui non riusciva a complimentarsi davvero per la riuscita di un film dell'amico, ma si diceva commosso dalla tenacia del regista. Non mancano le critiche speciose, davvero incredibili avendo in mente la grandezza delle opere del regista, che demolivano i suoi lavori. E ancora le lodi di Mastroianni e gli appunti di Arnaldo Pomodoro, il legame con Ferrara, le nebbie e i deserti, che lo avevano ossessionato e che ritornano nei suoi bellissimi quadri

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Ovunque emerge  il rapporto con le arti figurative, come un pungolo, e la sua natura aperta e dubbiosa, in continua dialettica con gli amici fraterni Luchino Visconti e Giorgio Bassani, con cui si perdeva in lunghe partite a tennis (in mostra i fogli dattiloscritti con i risultati originali dei tornei). A questo proposito nel cortile c'è una sorpresa, un omaggio a "Blow up" e alla passione del regista per questo sport.

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Unica pecca: manca un cofanetto completo in dvd delle sue opere nel bel bookshop di palazzo Diamanti

Ecco il ritratto che il nostro Goffredo Fofi ha fatto del maestro ferrarese su Domenica 10 marzo, giorno dell'inaugurazione della mostra

La grande mostra dedicata a Michelangelo Antonioni dalla sua città natale, Ferrara, era doverosa ed è illuminante per l’ampiezza dei sentieri battuti, sia i prevedibili che gli imprevisti, e per gli accostamenti proposti. L’atmosfera “antonioniana” che vi presiede produce insieme ammirazione e nostalgia, con il sentimento di una rottura che fu necessaria, e che aveva radici forti e precise ma prospettive aperte e insicure. Incurante dei pericoli, Antonioni sembrava ricercarli, e guardò da subito con un distacco affettuoso a una tradizione – quella del neorealismo – che aveva mostrato ben presto tutti i suoi limiti nella dominante corrente zavattiniana ed edificante, catturata dal flusso di una sinistra molto opportunista, al tempo dei “compagni di strada” da usare e guidare senza molto rispetto per la loro autonomia creativa.

Lo strappo fu immediato con Rossellini – il flusso dell’esistenza colto nel suo movimento anche il più intimo e nascosto, ma in sintonia con quanto di più alto la riflessione sull’epoca tragica appena conchiusa andava esprimendo, con i Maritain e soprattutto le Weil e i Camus (la trilogia attorno alla Bergman) – mentre fu più lento con Visconti, i cui maestri Verdi Verga Mann di una storia ancora piantata nell’Ottocento, l’accademica critica neo-comunista (ma anche post-fascista) trovava invece accettabili. Fu assai rapido anche  con due giovani romagnoli, Fellini e Antonioni, insofferenti di un maistream sponsorizzato e costrittivo, che mordevano il freno e che già nei due episodi del super-zavattiniano Amore in città battevano con beffarda indipendenza ben altri cammini.

Il cinema era ancora un’arte di massa e fu questo a permettere l’affermarsi di una minoranza di registi fortemente personali, incuranti delle idee correnti. Di quel felice arco di tempo, per il nostro paese e la sua cultura, che va dai primi anni cinquanta al boom e alla “congiuntura” che ne vide la crisi attorno al 1963-64, il cinema fu uno specchio di eccezionale varietà e ricchezza, ed ebbe in Fellini e in Antonioni i suoi giovani geni. L’opera del primo culminò in La dolce vita e Otto e mezzo, affreschi sociali di grande portata e di grande coraggio strutturale che si lasciavano alle spalle opere già compiute, ma nate dentro un’Italia non ancora affrancata dai bisogni primari. Quella del secondo culminò nella trilogia della “crisi dei sentimenti” (L’avventura, La notte, L’eclisse), bensì pienamente annunciata da Cronaca di un amore, da Le amiche, da I vinti, da Il grido. La fioritura di esordi di quegli anni dovette molto, sul fronte della commedia all’italiana come del cinema d’autore, a questi due “avanguardisti”, di fronte ai quali le libertà praticate dal Gruppo 63 in letteratura ci apparsero allora tardive e disincarnate. Ma se La dolce vita fu accolto a Cannes, anche grazie a Simenon, con immediata adesione di pubblico e di critica, per L’avventura ci volle un manifesto degli intellettuali (critici registi scrittori) francesi per rilevarne tutta la novità, e la profondità di questa novità.

Cinema “borghese”, ne dissero i detrattori, e astratto, freddo, incomprensibile, mentre gli ammiratori citarono F. S. Fitzgerald e la Woolf, la fenomenologia e i grandi fotografi della modernità. Di fatto, se i “figli” di Fellini produssero imitazioni del maestro tanto roboanti quanto fiacche e di superficie (per una specificità felliniana da grande antropologo dell’Italia, forse troppo italiano), fu Antonioni, tra i nostri registi, dopo Rossellini, a fare davvero scuola nel cinema internazionale, e a rimanere per più decenni un riferimento palese o nascosto per dozzine di nuovi registi o aspiranti tali. Di questa traccia si avvertono ancora oggi gli effetti, nel miglior cinema occidentale come nell’orientale. Nei primi anni settanta (c’era st
ato Blow-up a sbalordire il pubblico statunitense, il vero film di svolta per una seconda stagione del regista) una guida statunitense all’Italia che seguiva dettami controculturali e movimentisti, consigliava ai suoi giovani lettori di non partire da Roma senza aver prima conosciuto o almeno visto da lontano “Michelangelo and Elsa”…

   Antonioni si accanì successivamente in imprese sempre più ardue e in scommesse non sempre vinte ma sempre rispondenti a un radicalismo inusitato, a una ricerca che risultò più produttiva sul piano formale che nello scavo su un tempo già nuovo di cui non gli riuscì come in passato gli era riuscito con la “trilogia dell’incomunicabilità” – ma non era facile! –  di dire il nucleo, l’essenza. Una nuova mutazione si annunciava, dove avrebbero trionfato quelle forme di alienazione di cui egli aveva presentito e captato l’avvento, illustrandole con inediti personaggi di giovani “borghesi” benestanti e però colti, coscienti del proprio disagio esistenziale. Rimase sempre un grande ed esigente inventore di forme, un grande “fotografo”, un grande “pittore”. E penso anche al lavoro sul colore di un film che è ancora oggi figurativamente sorprendente come Deserto rosso. La mostra ferrarese, mettendo a confronto i suoi film, certe inquadrature, con opere dei pittori che egli amava, da Moranti a Rothko, dimostra e ribadisce il contributo che egli ha dato all’arte del secondo Novecento anche oltre i confini del cinema.

Non ho conosciuto Antonioni, trovando col tempo una maggior sintonia con l’opera, tra gli italiani, di Fellini, ma oltre al ricordo dell’assoluta emozione con cui vidi ragazzo Il grido – uno dei film che ho amato e amo di più – e più tardi L’avventura e L’eclisse, voglio ricordare un incontro bizzarro e, nel ricordo, commovente. Vi fu nei primi anni sessanta al Palais de Chaillot a Parigi una grande mostra di Klee, e corsi a vederla all’apertura quotidiana di un giorno di pioggia. Non c’erano allora le code di oggi, alle nove del mattino eravamo quattro gatti e tra questi c’era Antonioni, cui nella seconda sala della mostra osai avvicinarmi e presentarmi. Vivevo a Parigi e, tra l’altro, scrivevo di cinema su “Positif”. Antonioni fu di una cortesia inaspettata, e quadro dopo quadro, da una stanza all’altra, commentò pacatamente quel che vedevamo, “spiegandomi” Klee e la sua importanza. Mi sembrò eccezionalmente simpatico, ma i miei pregiudizi ideologici del tempo mi impedirono di cercarne l’amicizia, e ancora me ne rammarico.