Venezia 72: l’Australia sotto la lente di Sue Brooks, unica donna in gara

Parla, in esclusiva al Sole 24 Ore, l’unica donna in gara alla Mostra del cinema di Venezia con “Looking for Grace”.
Una ragazza scappa di casa e si scoprono segreti e bugie. Brooks promette humor inglese con visioni aborigene

Grace (Odessa Young), Grazia, è un’adolescente australiana, che non ha nulla su cui piangere davvero, tranne i mali dell’età. Salvo che sotto il tappeto del suo bel salotto si nascondano polveri adatte a dar miccia ad azioni avventate, come fuggire di casa. Appena la madre, Denise (Radha Mitchell), prigioniera dello stesso salotto, se ne accorge, scattano le ricerche che coinvolgono il padre di Grace, Dan (Richard Roxburgh), i cui sogni vanno ben oltre quel salotto, e il detective Tom (Terry Norris), con parecchie decadi di indagini sulle spalle. Sue Brooks, unica donna in competizione alla 72esima Mostra del cinema di Venezia – la proiezione è il 3 settembre -, racconta la vicenda in Looking for Grace, di cui ha scritto anche la sceneggiatura, secondo gli occhi di ciascuno dei protagonisti. Potrebbe essere un thriller, anche se Brooks difficilmente rinuncerà alla melanconia, all’eleganza, all’ironia che sono la cifra del suo cinema (Road to Nhill,1997, Subdivision, 2009, per citarne alcuni). In più l’evasione dalla culla familiare promette di portare alla luce ruggini e ragnatele alla Segreti e bugie, condite da atmosfere carveriane alla Altman.

«Leigh e Altman sono due dei miei registi preferiti – spiega Brooks al Sole 24 Ore -, e Nashville è uno dei film che amo di più. Ho un gusto eclettico in fatto di cinema, raccolgo qualsiasi suggestione. Adoro Catherine Breillat per la sua passione e impegno e Beau Travail di Claire Denis , anche se riesco a malapena a ricordarne la storia; ma i corpi scolpiti sono ancora vividi come una poesia. Mi piacciono le pellicole come Bridesmaids di Paul Feig per la loro audacia e irriverenza, Rashomon di Kurosawa perché non si conosce mai la piena verità, il lavoro di Antonioni perché ci lascia spazio per riflettere su quanto accade e le opere di Satyajit Ray per l’umanissima ironia. Il mio film preferito è Harvey di Henry Koster con il suo reale o immaginario coniglio bianco. Alla fine l’innocenza vince e la prova attoriale di Jimmy Stewart è molto convincente. Non puoi guardare Jimmy senza pensare che il coniglio bianco esista, anche se non lo vedi mai. Infine adoro Viaggio a Tokyo di Ozu per la sua moderazione».Le inquadrature che il Sole 24 Ore ha potuto vedere sembrano proprio un omaggio al capolavoro giapponese – l’influenza nipponica è anche nel suo Japanese story (2003) -, con i protagonisti calati in quinte geometriche. «Mi piace il ritmo misurato di Ozu, il suo occhio fresco, la macchina da presa che si muove raramente, permettendo ai personaggi di prendersi il proprio spazio. Non è mai giudicante e, come molti cineasti giapponesi, è interessato ai legami e in particolare alle relazioni intergenerazionali. In Looking for Grace trovo molto stimolante il rapporto tra il detective in pensione, Tom, e l’adolescente Grace. Tra loro c’è una distanza enorme, eppure sono entrambi alle prese con gli stessi problemi».
Le inquadrature sembrano anche un canto d’amore all’Australia e alla sue vastità. Il paesaggio, ripreso dall’alto, potrebbe essere anche un quadro astratto. «Spero che queste immagini provochino delle domande: dove siamo noi? Cosa stiamo cercando? Dove sono io in relazione alle immagini? Mi piace la consistenza, la luce e l’effetto di ironico distanziamento di queste visioni. Guardare la terra dall’alto ridimensiona le nostre preoccupazioni e ansie quotidiane e ci regala una prospettiva diversa del mondo e del destino. L’arte aborigena, che mi ha molto influenzata anche per il suo rapporto con il territorio, spesso si immedesima con il punto di vista degli uccelli. Un altro riferimento visuale sono le tele di Pieter Bruegel: più le osservi, più storie trovi. Accanto a una persona che ride, ce n’è una che lavora e una che sta lottando».
Nei film precedenti di Brooks affiora un comico, a tratti cinico, divario tra uomo e donna. «La differenza tra i sessi è una meravigliosa fonte di svago, intrighi e amori. Niente divertiva mia madre, che era una persona affettuosa e intelligente, più delle sciocche azioni e ossessioni degli uomini attorno a lei, incluse quelle di mio padre, di cui peraltro era veramente innamorata. Quando mio padre faceva o diceva qualcosa di stupido, mia madre alzava semplicemente un sopracciglio e sorrideva. Ci volevano uomini molto sicuri di se stessi per calarsi nei ruoli maschili di Looking for Grace. Richard Roxburgh e Terry Norris lo sono e hanno un forte senso di autoironia. Non si sono spaventati delle parti che dovevano recitare, come molti attori che, presentatisi al provino, pretendevano di cambiare la sceneggiatura per rendersi più virili. Ci ho riso su. Per secoli l’universo femminile, anche quello cinematografico, è stato inventato dagli uomini. Se lo specchio si rovescia si sentono irrazionalmente minacciati».
Tutti cercano Grazia, la giovane protagonista, ma anche un momento di grazia. E per Sue Brooks cos’è la grazia? «Fare colazione al mattino con il sole sulla schiena e la luce che rimbalza sul nostro albero di mimosa o il gorgheggio di una gazza, la prima volta in estate che un’anatra si tuffa sotto l’onda del mare. E nella memoria: tenere la mia mano dentro quella di mia madre, mentre camminiamo al centro della strada nella piccola città in cui sono cresciuta. Nessuno in giro, solo noi».