Applaudito dalla stampa, temuto dal direttore Alberto Barbera per la scia di polemiche che promette di portarsi con sé, questa mattina alla 71esima edizione della Mostra del cinema di Venezia è stato presentato fuori concorso “La trattativa”, il docufiction di Sabina Guzzanti sulla controversa trattativa tra Stato e mafia. Inizia con le riprese di un sacerdote che accompagna il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza davanti a una commissione. Spatuzza è visibilmente scosso, chiede al sacerdote di stargli vicino fino a che la commissione comincia a interrogarlo su questioni teologiche. Spatuzza non dimostrerà la stessa paura pochi minuti dopo, quando la macchina da presa di Guzzanti lo ritrae davanti a un’altra commissione: ma questa volta non di interrogazione si tratta, bensì di interrogatorio in cui il pentito nell’ ammettere stragi e uccisioni non tradirà nessuna paura o sconvolgimento, piuttosto una difficoltà a ricordare, salvo poi aggiungere particolari strazianti.
Una bomba scoppia alle spalle del tavolo dove si svolge la scena e la macchina da presa si ritrae fino a inquadrare uno studio cinematografico e una gradinata di panchine dove sono sedute alcune persone; al centro Sabina Guzzanti che dichiara: «Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo», appropriandosi della frase pronunciata da Gian Maria Volonté in un cortometraggio di Elio Petri: “Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli”, in cui appunto il regista si propone di ricostruire le tre versioni avallate dalla magistratura sul presunto suicidio di Pinelli attraverso «l’uso del nostro specifico», ovvero il comportamento di attori, registi e tecnici.
«La ricerca per scrivere questa sceneggiatura è stata lunghissima. Ho passato molto tempo a studiare e man mano che la conoscenza della materia aumentava scoprivo altre fonti. Fondamentale è stato l’archivio di Radio Radicale che permette di ascoltare i processi. Non sapevo come rendere la mia idea, poi finalmente il cortometraggio di Petri mi ha illuminato e ho trovato la chiave mescolando in modo omogeneo finzione e documentario, rappresentando fatti veri, tutti documentati, e permettendomi anche l’ironia. La recitazione è importante, ricorda che stiamo fornendo un punto di vista e in questo vi è una dichiarata onestà nel presentare gli eventi».
Così attraverso la messa in scena degli attori si mescola materiale di repertorio a interviste ai magistrati impegnati nella lotta alla mafia, a scene di fiction in cui gli interpreti ricostruiscono la storia italiana dagli anni Novanta fino ai giorni nostri con libertà creativa. «Le persone vere hanno il sottopancia, gli attori no, anche quando interpretano i magistrati», precisa la regista. «Il mio è un film inattaccabile, perché racconta verità documentatissime verificate più di mille volte».
La pellicola – uscirà nelle sale il 2 ottobre, distribuita dalla Bim che l’ha prodotta con la stessa Guzzanti – offre la tesi, che dividerà moltissimo, della regista già nella locandina dove è raffigurato lo stemma della Repubblica italiana, che ospita all’interno un uomo con la coppola e una lupara appoggiata sulla spalla.
Si parte dai dubbi sul processo che ricostruì la strage di via d’Amelio del 19 luglio 1992, dove morirono il giudice Borsellino e quattro agenti della scorta, per arrivare alla strage di Capaci che nemmeno due mesi prima aveva ucciso il giudice Falcone, la moglie Francesca e tre agenti della scorta. Si prosegue con le stragi del 1993 che hanno insanguinato l’Italia – tra esse, via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano, le bombe di San Giovanni in Laterano e a san Giorgio in Velabro a Roma. Si ritorna al ’92 con l’omicidio di Salvo Lima, di nuovo al ’93 con l’uccisione di padre Puglisi: tutte conseguenti alla conferma del 30 gennaio del 1992 da parte della Cassazione della condanna all’ergastolo per gli imputati del Maxiprocesso istruito contro Cosa Nostra. Nella ricostruzione di Sabina Guzzanti – funzionante sicuramente dal punto di vista cinematografico, lo spettatore non si annoia mai – ne seguirebbe una trattativa tra lo Stato e la mafia per far cessare le stragi e gli omicidi che coinvolgerebbe i vertici dello Stato e della polizia e su cui si sono istruiti i processi a carico del generale del Ros, Mario Mori, e del senatore Marcello Dell’Utri; su cui si è basato l’interrogatorio a Nicola Mancino, allora ministro dell’Interno. Guzzanti evidenzia la mancata perquisizione del covo dopo l’arresto di Riina e la nascita di Forza Italia come un partito riappacificatore tra la politica e i vertici di Cosa Nostra. «Ma il mio non è un film su Berlusconi», tiene a precisare la regista prendendo le distanze dal film di Franco Maresco “Belluscone – Una storia siciliana”, presentato alla Mostra qualche giorno fa. «Stimo Maresco ma il mio film è un’altra cosa».
Un passaggio delicato riguarda il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, tirato in ballo da Mancino. Nel film si vede l’ex ministro Mancino sotto accusa per falsa testimonianza su un incontro avuto con Borsellino a Roma mentre il magistrato interrogava il pentito Mutulo. In seguito Mancino non ha rinnovato il carcetre duro (41 bis) a 400 mafiosi. Quando poi i magistrati di Palermo hanno aperto il processo sulla trattativa Mancino avrebbe chiesto a Napolitano “di tirarlo fuori dagli impicci”. È la questione delle telefonate di Mancino a Napolitano, le cui intercettazioni su richiesta del Quirinale sono rimaste secretate e successivamente distrutte.
«Le istituzioni italiane hanno paura della democrazia. C’e’ sempre qualcuno che decide per noi nell’interesse della democrazia. Se non ci fosse stata la trattativa questo Paese sarebbe migliore. E ci sarebbero anche Falcone e Borsellino», conclude Guzzanti.