Al festival del cinema europeo di Lecce ho il privilegio di intervistare Aki Kaurismaki, che avevo già incontrato a Cannes nel 2011. Ribadisce la sua volontà di ritirarsi dal cinema e di voler spingere i giovani a filmare la crisi. Ecco l'articolo pubblicato due giorni fa su Domenica
La crisi che sconquassa l'Occidente, arruffa i giovani privi di lavoro e di futuro, allunga la fila dei nuovi poveri, potrebbe essere il tema perfetto per il prossimo film di Aki Kaurismäki. Ma il finlandese dall'humor nero, la cui filmografia privilegia gli ultimi e i derelitti, scuote la testa davanti a una birra nel centro di Lecce, dove il Festival del cinema europeo gli ha dedicato un'attenta retrospettiva. L'immancabile sigaretta tra le dita, la carnagione chiarissima arrossata dalla mattinata quasi estiva, è tassativo: «Deve farsi avanti un giovane, io ho già anticipato e poi dato voce all'orribile crollo economico, il più duro che io abbia visto, che investì la Finlandia tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta. E allora non c'era l'Unione Europea a correre in soccorso: pochi si riempivano le tasche a danno di chi era in ginocchio». Così in Le ombre del paradiso (1986) – che assieme ad Ariel (1988) e La fiammiferaia (1990) forma la cosiddetta "Trilogia dei perdenti" – una giovanissima Kati Outinen ruba la cassaforte portatile del datore di lavoro, che l'ha appena licenziata, e sprofonda in una crisi esistenziale in cui ci va di mezzo il fidanzato netturbino lasciato per un belloccio danaroso. O in La fiammiferaia la musa Outinen («se ti trovi bene perché cambiare attore?»), impiegata in una fabbrica di fiammiferi per l'appunto, tiranneggiata da genitori alcolizzati e nullafacenti, sogna il riscatto dalla solitudine attraverso la storia d'amore con un uomo benestante ma senza cuore.
Nel '96, quando l'economia finlandese si è già ripresa, Kaurismäki gira Nuvole in viaggio, che scava nelle vicende altalenanti di due camerieri, marito e moglie, senza lavoro per il fallimento del locale in cui erano impiegati.
«Il capitalismo è stato un grave errore e la crisi ha conseguenze ambivalenti. È terribile se penso alla speranza decapitata dei ragazzi, nei cui occhi si legge la disperazione; è positiva nel momento in cui pone un freno al consumismo che ci cannibalizza». Kaurismäki va in auto e prende l'aereo solo se costretto dal lavoro, da anni non mangia carne bovina e suina per protesta verso gli allevamenti che riducono gli animali in cattività. Al massimo si permette carne d'agnello, perché scorrazzano in libertà. «In questa società non sei vittima solo se hai il portafoglio pieno», sorride malinconicamente guardando di sguincio piazza Sant'Oronzo e si rammenta la volta in cui si trovò al verde, durante un viaggio in Portogallo, Paese in cui ora vive. «Dovevo tornare a casa, ma ero troppo orgoglioso per telefonare a mia madre e chiederle di mandarmi dei soldi. Così ho fatto l'autostop, ma la mia faccia era talmente poco rassicurante anche per i camionisti, che sono rimasto per 24 ore in un autogrill senza che nessuno mi caricasse a bordo». L'ironia non manca mai nello sguardo e nel modo di parlare, ma è sempre benevola. Nei film si evince soprattutto dalle inquadrature beffarde, come nel primo piano sulle bottiglie vuote di aranciata che la fiammiferaia si scola in una balera per affogare l'amarezza, o nel camion dell'immondizia che accompagna gli sposi in viaggio di nozze in Le ombre del paradiso. E anche dai dialoghi, spesso nonsense, ridotti all'osso. «Il cinema è luce e la sua sostanza nelle immagini. I dialoghi hanno poca importanza, la cinematografia ha raggiunto i suoi massimi ai tempi del muto». In ossequio a questa idea, Tatjana (1994) e Juha (1999), adattamento di un classico finlandese di Juhani Aho, sono due moderni silent movies. L'esordio di Kaurismäki come spettatore avvenne con la visione di due film lontanissimi: il surrealista L'âge d'or (1930) di Luis Buñuel, scritto assieme a Salvador Dalì, e il capostipite dei documentari, Nanuk l'eschimese (1922), di Robert J. Flaherty. «Li vidi la stessa giornata senza soluzione di continuità e rimasi abbacinato. Li trovai meravigliosi nella loro diversità. Avrei potuto girare L'âge d'or se fossi stato pazzo, ma fortunatamente sono normale. Entrambi influirono sul mio modo di fare regia. Infatti, nel rappresentare i miei drammi sociali ho attitudini neorealiste, ma sono anche surrealista, almeno spero. Sicuramente non sono un realista socialista sovietico». Poi si fa serio: «Bisogna essere molto precisi sui termini: il Neorealismo è un modo di osservare l'universo. Rossellini, Visconti, Lattuada non erano neorealisti, anche se ci sono andati vicino. Lo furono invece Zavattini e De Sica». I loro puri e semplici di cuore hanno la stessa pastosa bontà dell'entourage che avvolge il lustrascarpe Marcel dal cognome emblematico, Marx, in Miracolo a Le Havre (2011): un titolo che non può non richiamare Miracolo a Milano (1951) della coppia Zavattini-De Sica. Nel film del regista finlandese gli emarginati della parte più povera della cittadina francese si prodigano, riuscendoci, per aiutare un piccolo immigrato africano.
Ma della possibilità che la nostra sia una decrescita felice che allarghi le maglie della solidarietà, Kaurismäki ridacchia: «Quello era un film». Quando però si avvicina una signora di colore per vendere qualche chincaglieria, le accarezza la testa con dolcezza e senza falsa carità le infila una banconota nella mano, «It's ok Mama». Il sarcasmo che racconta le pene d'amore, l'incomunicabilità tra uomo e donna, il machismo, la depressione, le sbronze senza gioia sono frutto – racconta – anche di una lettura precocissima di Gogol, Kafka e Camus. «Soprattutto Gogol, maestro di umorismo nero, di cui ho divorato tutto, anche Veglie alla fattoria presso Dikan'ka, che per me sono piuttosto romantiche. Ho iniziato a leggere a quattro anni e non ho mai smesso; a otto avevo finito tutto Camus e me lo sono riletto tre volte». Così nell'incipit di Le luci della sera (2006) un gruppo di operai discetta di letteratura in una conversazione surreale: «–Il grande romanziere russo Maxim Gor'kij ha avuto una vita proprio difficile. – E Pëtr Cvajkovskij, allora? Si è gettato nel fiume… –E Tolstoj? Era conte, ma non per questo è stato compreso. –Il fatto è che solo padre Cvecov cercava di capirci e bam, quando l'ha capito, è morto». Per la letteratura contemporanea l'onnivoro Kaurismäki si sposta oltreoceano, e cita Franzen, soprattutto Libertà (Einaudi, 2011, ndr) e Paul Auster. Gli è sconosciuto Saramago, anche se la sua vita è da tempo in Portogallo, ma si illumina a sentire il nome dell'amico Manoel de Oliveira: «È Obi-Wan Kenobi, un maestro vero, non come me». Un sodale per un prossimo appuntamento sullo schermo? «Roberto Benigni. Ci siamo riconosciuti vent'anni fa come fanno i cani. Ma la verità che io non farò un film né con Roberto, né con nessun altro». A Cannes due anni fa aveva detto lo stesso. Speriamo che si ravveda. © RIPRODUZIONE RISERVATA