La Croisette regala tre biopic: Turner, Grace e Saint Laurent. Ma svettano Sissako
e il turco Ceylan. Oggi il film italiano
In un’epoca dalle gambe fragili si rispolverano i miti. Così la sessantasettesima edizione del festival di Cannes si è aperta raccontando le vite illustri degli altri, cui si consegnano i sogni fanciulleschi di grandeur. Ma Grace de Monaco di Olivier Dahan è però un biopic bizzoso che prima si concentra sulle tristezze della principessa; poi passa alle tensioni politiche con la Francia durante la guerra d’Algeria (per il nobile ideale di non voler pagare le tasse!). Infine si sofferma sulle incomprensioni coniugali tra Grace e Ranieri (Tim Roth) con cadute melodrammatiche e piuttosto ridicole, come quando, gravida di gemme preziose, Grace propone al marito di andare a vivere in campagna. Tutto pesa sulle spalle di Nicole Kidman, la cui la ombra glaciale dà però il suo meglio in personaggi oscuri come Virginia Woolf (The hour, 2003), non certo tra tulle, diamanti e modelli Chanel. A un biopic di altissima fattura si è dedicato anche Mike Leigh, vecchia conoscenza del festival. Mr Turner illumina un tratto dell’esistenza del vedutista inglese, vissuto tra il 1700 e il 1800.
La sonnambula e animalesca interpretazione di Timothy Spall, a suon di grugniti e aggrottar di sopracciglia, rende perfettamente la sgraziata genialità dell’artista che si esprimeva solamente attraverso la sua pittura rivoluzionaria. Il film è un impressionante susseguirsi di magnifici quadri, grazie alla fotografia di Dick Pope, in cui dominano colori e toni tempestosi, ma l’eccellenza del personaggio non restituisce l’umanità scorticata dei vigliacchi sprovveduti o degli eroi borghesi che popolano capolavori come Segreti e bugie (Palma d’oro nel 1996) e Il segreto di Vera Drake (Leone d'oro nel 2004). Non si sentiva invece il bisogno di un’altra agiografia di Yves Saint Laurent, per quanto i francesi ne siano affezionati. I vizi e le virtù dello stilista – dalla droga ai giochi erotici, al talento indiscutibile che ha consolato gli orfani di Christian Dior con la sua haute couture- erano già stati visitati nella pellicola di Jalil Lespert. Tanto era poco sapido Yves Saint Laurent, passato alla Berlinale nella sezione "Panorama", quanto a tratti provoca noia il Saint Laurent approdato sulla Croisette, nonostante la maggior raffinatezza di Bertrand Bonello. Steso un velo sui Captives di Atom Egoyan che prova blandamente, senza riuscirci, a giocare la carta dell’ambiguità, cifra del regista egiziano, con un thriller in cui è coinvolta una banda di pedofili, gli altri tre film in concorso hanno buone chances di entrare nel palmares. Dopo essersi aggiudicato due volte il "Grand Prix speciale della Giuria" (nel 2003 con Uzak e nel 2011 con C’era una volta in Anatolia) e il premio per la miglior regia nel 2008 con Le tre scimmie, Nuri Bilge Ceylan porta a Cannes Winter Sleep.
È un dramma cechoviano, in cui la piccineria dei personaggi viene in rilievo pian piano, svelando vanità e intenzioni (a volte buone) mistificate dagli altri. Aydin (Haluk Bilginer), proprietario di un albergo in una zona montuosa della Turchia, calcarea e lunare, ed editorialista per un giornale locale, la giovane e bella moglie, Nihal (Melisa Sözen), e la sorella di Aydin, Necla (Demet Akba?) si aggrovigliano in un lievitare di accuse reciproche, dettate da risentimenti e frustrazioni. Tutti con il sogno di andare a Istanbul, proprio come la Mosca delle Tre sorelle. La fotografia e la grande prova di recitazione rendono lieve l’opera, lunga oltre tre ore. Anche Timbuctu di Abderrahmane Sissako ha una fotografia che meriterebbe un riconoscimento, come per altro l’intero affresco corale, cui Sissako si è già affidato in precedenti pellicole (Aspettando la felicità, 2002 e Bamako, 2006) che restituisce un’Africa poetica e amara. Questa volta corrosa dal fondamentalismo islamico, deriso con eleganza attraverso le contraddizioni dei suoi paladini, che cedono al fumo, al piacere della musica, alla tentazione dell'adulterio. Relatos Salvajes ha riempito invece la sala di risate, confermando l’abilità comica di Damián Szifrón, già evidente nella sua commedia nera d’esordio, El fondo del mar (2003). Concepito in sketch – in cui appare anche la stella argentina Ricardo Darin nel ruolo di un dinamitardo – il film è una irresistibile sequela di situazioni splatter alla Tarantino, condite con intelligenza e ironia sudamericana. A partire dall’aereo in cui sono inconsapevolmente imbarcati tutti coloro che hanno avuto un legame e hanno contribuito alla frustrazione di un fantomatico Gabriel Pasternak, che in quel momento si trova a pilotare l'aereo… Oggi invece c’è la proiezione ufficiale di Le meraviglie di Alice Rohrwacher, in concorso a soli 33 anni, battuta in età solo dal 25enne Xavier Dolan, in arrivo giovedì con Mommy. Jane Campion, presidente della giuria, potrebbe apprezzare le doti oniriche e la malinconia sottile, dettate da una spiritualità laica e sofferente, che Rohrwacher aveva manifestato in Corpo celeste, già alla "Quinzaine des réalisateurs" nel 2011. È l’unica donna in competizione assieme a Naomi Kawase (martedì con Still the water), particolare non trascurabile visto che Campion ha lamentato come solo il 7per cento dei film arrivati alla selezione fossero diretti da mano femminile. Devono però passare ancora molti mostri sacri: da David Cronenberg (domani con Maps to the star), ai fratelli Dardenne (Deux jours, une nuit, martedì), a Jean-luc Godard (Adieu au langage, mercoledì), a Ken Loach (Jimmy's hall, giovedì). Ma questo potrebbe favorire la benevolenza verso un giovane, per rivendicare il ruolo di talent scouting del festival di cinema più importante del mondo, contestato proprio dalla presenza di tanti luminari del grande schermo. È di buon auspico anche la proiezione programmata oggi, cuspide della rassegna, quando la Croisette è ancora affamata di lustrini, feste e di balordi vestiti come Charlotte, Marylin e altre icone del passato. Fari cui guardare se la strada è difficile.