Se il compito dell’Academy fosse giudicare il cinema, l’Oscar sarebbe dovuto andare a Emilia Pérez, perché, tra quelle in gara, era l’unica pellicola nuova e dirompente, a prescindere dai gusti. E, invece, la conventicola di L.A. si è autopremiata, fingendo azzardo nell’impalmare una produzione indipendente, Anora, e parandosi dagli strali che l’avrebbe investita consegnando le meritate statuette al regista Jacques Audiard e alla protagonista Karla Sofía Gascón, rea di aver twittato post razzisti. Imperdonabile, è vero. Ma quante volte abbiamo separato l’opera dall’autore. Hollywood si è lavata la coscienza, consegnando cinque statuette (miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio, miglior regia e migliore protagonista femminile, Mikey Madison), mai successo (codone di paglia nel ribadire che erano convinti), ad Anora di Sean Baker, ostentando la rivoluzionarietà dell’omaggio alle lavoratrici del sesso, come se fosse un argomento nuovo.
In sala, tra l’altro, c’era Demi Moore – rimasta a mani vuote per il suo ottimo ruolo (quello sì provocatorio) in The substance –, che aveva recitato in Streaptease come spogliarellista. Senza dimenticare Irina Palm con Marianne Faithfull, una dei “morti” illustri dimenticati, assieme ad Alain Delon, dal buonismo degli obituary da palco, che hanno ricordato, tra gli altri, Gene Hackman, David Lynch, Donald Sutherland e Quincy Jones.
L’Academy ha pensato di cavarsela con un film che sparava a zero contro la protervia dell’oligarchia russa, raccontando la storia del matrimonio tra un rampollo di quest’ultima e una sex worker americana. Forse a Hollywood è sembrata una coraggiosa presa di posizione in chiave anti-russa dopo il disastroso colloquio Zelensky-Trump, con cui gli Usa hanno cominciato a scaricare l’Ucraina. Se fossero stati davvero intrepidi, dal punto di vista politico, avrebbero dovuto dare il premio principale al perturbante documentario No Other Land girato dall’attivista palestinese Basel Adra, insieme al regista palestinese Hamdan Ballal, al giornalista israeliano Yuval Abraham e alla direttrice della fotografia israeliana Rachel Szor. È un racconto in presa diretta di anni di resistenza nel villaggio palestinese di Masafer Yatta in Cisgiordania, dichiarato dalla Suprema Corte israeliana luogo di esercitazioni militari. E , invece, lo hanno confinato nella sezione del cinema del reale. Emilia Pérez, che partiva con 13 candidature, si è presa le briciole: miglior attrice non protagonista (sacrosanto) a Zoe Saldaña, che ha strinato ulteriormente le coscienze di Hollywood rivendicando le sue origini di immigrata di seconda generazione, e la statuetta per la miglior canzone originale a El mal di Camille e Clément Ducol. Niente ha potuto risollevare la cerimonia soporifera, condotta da Conan O’Brien, equilibrista del nulla; nemmeno quando Adrien Brody per andare a ritirare la statuetta come miglior attore protagonista per The brutalist ha lanciato la chewing gum al volo alla moglie. La recitazione di Brody ha lenito la languente lunghezza del polpettone sentimentale di Brady Corbet, ma l’attore aveva già preso l’Oscar per Il pianista nel 2003 e il riconoscimento se lo meritava Ralph Fiennes per quel gioiellino di suspense, molto attuale, che è Conclave (premio alla miglior sceneggiatura non originale di Peter Straughan). Quasi quasi vien da difendere il povero Timothée Chalamet, che aveva già il piede pronto per schizzare sul palco a fare il paladino di Bob Dylan, ma si è bruciato con il discorso presuntuosetto agli Award Acceptance Speech, in cui ha detto che, insomma, questo è solo l’inizio di una carriera Über alles. The complete unknown è stato snobbato, mentre Corbet si è portato a casa anche la miglior fotografia (Lol Crawley) e la miglior colonna sonora originale (Daniel Blumberg).
Per non dimenticare nessun amichetto, il miglior attore non protagonista è stato Kieran Culkin per A real pain, l’inoffensivo dramedy di Jesse Eisenberg. Wiked ha avuto la miglior scenografia (Nathan Crowley) e arredamento (Lee Sandales) e migliori costumi (Paul Tazewell) per attenuare lo scorno delle dieci nomination andate a vuoto (ma nessuno si è strappato le vesti). Altro premio di consolazione: i migliori trucco e acconciatura a Pierre-Oliver Persin, Stéphanie Guillon e Marilyne Scarselli per The Substance. La sala esanime ha avuto un sussulto solo quando hanno annunciato il miglior film internazionale, il tosto brasiliano Io sono ancora qui di Walter Salles e il premio per l’animazione al lettone Flow di Gints Zilbalodis.
Niente di nuovo sul fronte occidentale: i veri riconoscimenti sono andati solo e solamente a produzioni americane, presunte indipendenti. Vogliamo chiamare piccola forza quella della Neon dei fratelli Friedkin di Anora? L’amichetteria dell’ormai potentissima Greta Gerwigh aveva già spianato la strada a Baker a Cannes. Ora Anora si farà un giro di sale internazionali guadagnando quei soldi che non aveva fatto fino ad ora con le sue forze nei cinema.
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