Leila, campionessa di Teheran, può vincere i mondiali di judo. D’un tratto la Guida Suprema le impone di fermarsi perché rischia di incontrare il nemico: Israele. Leila deve scegliere tra la libertà individuale e la salvezza dei suoi familiari
Tatami non è un film “sportivo”, come non lo sono Toro scatenato, Million dollar baby e Foxcatcher – Una storia americana. Sono racconti di un popolo, di un’epoca, del conflitto tra la superiorità dei legami di sangue o di amicizia, resi attraverso uno sforzo fisico sovrumano.
È carica Leila (Arienne Mandi), la testa in armonia con il corpo allenato, la concentrazione alta: può vincere ai mondiali di judo cui sta partecipando. La sua coach Maryam (Zar Amir) le sta addosso, la incita, le suggerisce strategie e tecniche, ma la guarda sospettosa quando si intrattiene con un’atleta di un’altra nazione. Le sente informarsi reciprocamente delle loro vite: Leila risponde che suo figlio sta bene e si dispiace quando l’altra le comunica che la sua relazione sentimentale è finita. «Troverai la persona giusta» la incoraggia Leila, come se potesse partecipare anche lei di una libertà di scegliere che nel suo Paese, l’Iran, alle donne è interdetta. Lo dice alzando la voce, quasi come un augurio per tutte le connazionali costrette a nascondere i capelli sotto un velo ovunque, anche in gara, dove Leila porta un passamontagna che le incornicia il viso lasciando un piccolo tondo.
L’allenatrice è torva durante quello scambio di battute e lo spettatore si chiede se tema un eccesso di familiarità o un calo di aggressività che possa impedirle di arrivare al podio. Ma a preoccupare Maryam è la casacca che indossa l’altra atleta, quella di Israele, sommo nemico dell’Iran. Maryam soprassiede, pensa alla competizione e a bordo tatami le sa dare i consigli giusti. È stata anche lei una nobilissima atleta ed è fiera della sua pupilla, non l’ha mai vista così in forma. È in fondo come se fossero sue le vittorie che Leila continua a inanellare, arrivando sempre più vicina all’oro, che anche lei, Maryam, era in predicato di vincere qualche anno prima se non si fosse infortunata. Sono una lo specchio dell’altra e quando arriva una telefonata dalla Federazione che impone a entrambe di fermarsi, perché c’è la forte possibilità che debba battersi con il nemico israeliano, trasgredisce accompagnando Leila inconsapevole davanti alle porte che si spalancano per accogliere le judoke sul tappeto. Aspettano tese che chiamino «Iran» per spingere le ante e battersi per il loro popolo. Ma mentre Leila lotta, Maryam è bersagliata di telefonate: «Traditrice!» le urlano e le ordinano di ritirarsi fingendo un infortunio, altrimenti lei, Leila e le loro famiglie subiranno pesanti conseguenze. Non è più la Federazione nazionale a chiederlo, ma la Guida suprema.
Tatami è ispirato a storie vere: quella di Sadaf Khadem, la pugile iraniana rifugiata in Francia, dopo il mandato d’arresto spiccato contro la sportiva per aver disputato il match in shorts e canottiera. O quella dell’arrampicatrice Elnaz Rekabi, campionessa mondiale, che a Seul ha gareggiato a capo scoperto in segno di adesione alle manifestazioni di proteste dopo la morte di Mahsa Amini. Tornata in Iran, di lei non si hanno più notizie. O quella di Kimia Alizadeh, taekwondoka iraniana, medaglia di bronzo ai Giochi olimpici a Rio de Janeiro nel 2016, portabandiera dell’Iran alle Olimpiadi giovanili di Nanchino nel 2014. Nel 2020 ha annunciato sui social network di aver lasciato l’Iran a causa dell’oppressione che il suo Paese esercita sulle donne. Oggi gareggia nella categoria “atleti olimpici rifugiati”.
Tatami è il primo lungometraggio co-diretto da una regista iraniana, Zar Amir – già migliore attrice a Cannes nel 2022 per Holy Spider e, in Tatami, anche nel ruolo dell’allenatrice – e un regista israeliano, Guy Nattiv, premio Oscar nel 2019 per il cortometraggio Skin.
Con un bianco e nero deciso, che restituisce profondità nette, spesso scure, i due registi spingono molto sui primi piani, indagando il tremendo bivio tra la rinuncia ai propri sogni e l’istinto a preservare la salute dei familiari. Le attrici rendono l’atmosfera con padronanza, dimostrando di conoscere bene la tirannia che continua a uccidere donne e uomini in lotta contro l’apartheid femminile e l’autoritarismo. Artisti e oppositori che pagano la libertà di espressione con il ritiro del passaporto, incarcerazioni (Jafar Panahi, Saeed Roustayi, Mohammad Rasoulof, solo per citare registi), esili e, nei casi peggiori, con la vita.
È un tiratissimo thriller psicologico e politico Tatami, ma anche un brillante film sportivo nei campi lunghi che restituiscono le mosse e l’abilità tecnica. Anche se le categorizzazioni servono solo a noi per far ordine: Tatami le ha già scavalcate. Così come lo sport nella sua tensione al superamento dei limiti e della morte.
4 stelle
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