Il film di Ilker Çatak racconta l’escalation rocambolesca di un’indagine interna (e illecita) per scoprire l’autore di alcuni furti in una scuola media tedesca e d’improvviso scoppiano il conflitto sociale e l’odio
Il finale di Sala professori (che non sarà svelato) ha una statura epica che vale la visione. Questo film – candidato all’Oscar come migliore pellicola straniera – mescola la meridionalità della tragedia greca al nordico rigore tedesco attraverso il portato personale del regista Ilker Çatak di origini turche, nato a Berlino e cresciuto in parte a Istanbul. La storia parte da uno skandalon, la pietra d’inciampo, rappresentato da piccoli furti che esasperano il corpo docenti di una scuola media pubblica.
Se ne parla nella sala professori dove Carla Nowak (Leonie Benesch), insegnante di matematica al suo primo incarico, entra con timidezza e quasi paura. O magari forse con il sussiego degli idealisti che marciano in nome di una vocazione, di coloro che hanno la presunzione di capire davvero gli allievi esercitando su di loro metodi innovativi. E forse perché si è cimentata da poco con la carne viva del materiale umano e con le contraddizioni di una società multietnica. Carla non si riconosce, almeno non del tutto, nel metodo “tolleranza zero” usato nella scuola, di cui la preside si fa un vanto: comunque sia lei è lì per i ragazzi come spin doctor dei cittadini del futuro. Sta dalla loro parte incondizionatamente, per questo mette fisicamente e verbalmente le distanze tra lei e un manipolo di colleghi, convinti che il ladro risieda dall’altra parte della barricata, ovvero tra gli studenti. La sua diffidenza è corrisposta, visto che viene avvisata all’ultimo di un incontro con i rappresentati di classe degli allievi, che si svolge in forma di interrogatorio poliziesco con richieste di delazione. Viene colta invece del tutto di sorpresa dall’ispezione che avviene mentre è in classe. Non può sconfessare i colleghi, ma non riesce ad arrendersi che la scuola sia una guerra tra studenti e insegnanti, che si affrontano come nemici. Con una conclusione affrettata quanto sommaria, l’inchiesta si conclude a sfavore di un allievo immigrato di seconda generazione e si trasforma maldestramente in una caccia alle streghe razzista. Carla si schiera ancor di più dalla parte del ragazzo: nonostante sia nata in Germania, ha radici polacche che nasconde e preferisce non riesumare. Per dimostrare che gli studenti non c’entrano d’improvviso le viene un’idea: dal proprio computer avvia un video nella sala professori che individua il colpevole.
Prima usato come dissuasore, poi come prova, il video è il virus che farà scoppiare una frattura tra corpo docente, allievi e genitori, e fra i membri delle singole “fazioni”, facendo venire in luce i nodi sociali irrisolti. Carla si troverà ad essere il parafulmine di questo ingarbuglio, anche perché il metodo che ha usato è illegale: viola la privacy. Lei, che contesta ai colleghi procedure illecite, a sua volta cade nella trappola di farne uso. E, poi, Carla è sicura di aver individuato bene il ladro? I primi a contrastarla sono proprio gli allievi che lei vuole proteggere e scagionare, dimostrando una violenza estremista che non permette compassione, una crudeltà che è propria di chi non conosce il metro della mediazione. Sono in guerra e usano gli stessi metodi equivoci degli adulti.
Çatak sceglie il formato quadrato per stare addosso alle emozioni, toglie gli elementi di contorno, salvo per qualche inquadratura alle poche geometrie “vezzose” di edifici funzionali degli anni 60. E gira tutto in interni, tra scalinate, corridoi di passaggio, scaffali e banchi. La macchina da presa è ferma ma tesa a cogliere le emozioni di Carla, dei ragazzi e di un allievo in particolare, Oskar (Leo Stettnisch, espressivissimo), costretto, suo malgrado, a condividere il trofeo di capro espiatorio con la professoressa odiata. Molto è appoggiato sull’interpretazione di Leonie Benesch (Il nastro bianco, The crown), mobilissima nel viso nel rappresentare entusiasmi e ansie, cercando di trattenerli all’interno del carapace costruito per difendersi dalla società che vorrebbe migliorare.
Çatak partecipa dei pensieri di Carla, ma poi, sempre tramite la soggettiva di lei, concede un’attenuante al corpo docente, cui è toccato in sorte l’improbo compito di reggere lo scudo delle mutazioni sociali con uno stipendio inadeguato, una preparazione fatta sul campo, ad intuito, con le buone e con le cattive, verso una generazione che capta i segnali confusi di un mondo troppo veloce, accartocciandosi.
La scuola è un’eccellente cartina di tornasole per tastare la salute della nostra contemporaneità. Lo hanno fatto Laurent Cantet ne La classe (2008), un quasi documentario realizzato in un istituto scolastico nella banlieue parigina, e Rok Bicek nel sorprendente Nemico di classe (2013), che contrappone l’estremismo dei ragazzi all’impreparazione emotiva degli adulti.
Anche Çatak lo fa bene con l’unica pecca di subire in alcuni punti la stessa rigidità nociva che vuole denunciare, apparendo un poco artificioso, soprattutto nella parte iniziale, e leggermente macchiettistico nei personaggi secondari. Ma a parte questo, chapeau, il film resta e fa pensare.
La sala professori viaggia nel solco dell’insegnamento che ci ha dato nei giorni scorsi il Presidente della Repubblica, dopo le manganellate alla manifestazione studentesca di Pisa: colpire i ragazzi è il nostro fallimento.
4 stelle su 5
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