Berlinale 74: L’Orso va in africa con le opere rubate dal colonialismo

Berlinale 74. Vince a sorpresa il documentario «Dahomey» di Mati Diop sulle conseguenze del colonialismo francese in Benin, mentre la regia va al pazzissimo film «Pepe». Italiani a mani vuote (peccato per Messina), ottimo premio a Watson
Ha tenuto duro la presidente della giuria Lupita Nyong’o (12 anni schiavo), cresciuta in Kenia, modello hollywoodiano del black power. Hanno litigato di brutto i giurati, ma sono riusciti a dare premi non scontati, che preservano l’autorialità e la cifra politica della rassegna (Cease fire era la scritta che portava cucita addosso la maggioranza dei componenti ). L’orso d’oro va  a sorpresa al documentario di Mati Diop, Dahomey, dove a parlare è un fantasma, una statua che assieme ad altre 25 opere d’arte è stata restituita da Parigi al Benin, vittima della furia colonialista. Non è nuova al fantasy la franco senegalese Diop, che nel suo primo film, Atlantic, faceva parlare ragazzi zombie morti in mare per cercare fortuna in Occidente.
La cosa evidente è che questa 74esima edizione della Berlinale, da sempre vetrina dell’Est Europa, quest’anno lo è stata piuttosto dell’Africa. Ma non quella su cui versare la nostra compassione occidentale. Piuttosto quella dei ragazzi che, come nel documentario di Diop, discutono con argomentazioni acutissime sull’eredità coloniale francese. Un’Africa di una classe media con un potere di consumo di standard internazionale (si parla di 330 milioni di persone, secondo una ricerca McKinsey). Quella dell’aggraziata Aya (Nina Mélo) di Black tea del mauritano-maliano Abderrahmane Sissako, purtroppo a mani vuote. Black tea racconta della comunità ivoriana a Guangzhou, dove dietro un’apparente armonia si cela la potenza distruttiva dei pregiudizi, delle omissioni e delle bugie.
Il gran premio della giuria va a Le esigenze di un viaggiatore di Hong Sangsoo, sotto l’occhio sornione del grande saggio coreano che prende in giro la mania esterofila dei suoi compaesani, pronti a foraggiare le bizzarre lezioni di inglese di Isabelle Huppert, una simpatica signora spiantata, che dorme a casa di un ragazzo conosciuto in un parco, golosa di liquore locale. Molto simpatico anche il premio della giuria all’Empire del ghignante Bruno Dumont. I fan di Fabrice Luchini si divertiranno a vederlo nei panni della Morte nera in uno Star wars tra i contadini normanni.
Ottima scelta dare il premio per la regia allo sperimentale, pazzissimo Pepe di Nelson Carlos De Los Santos Arias. Qui un ippopotamo parla dall’aldilà e racconta di essere stato rapito per volere di Pablo Escobar per essere portato in Colombia, dove rimane vittima di una saga scespiriana che lo allontana dalla famiglia . Chi scrive ha dovuto riflettere più volte sulla trama, che si impone (credo) come una parabola degli umiliati e offesi dalla legge del più forte, dalle dittature in generale, dai governi, dai fratelli aguzzini, dal narcotraffico, schizzando in mille rivoli (alcuni divertentissimi, come l’elezione delle miss locali o la lite tra una vecchia coppia, un pescatore e una sarta) per poi avvolgerti nelle spire del poliziottesco, del fantasy, del cartone animato. Assai controverso il premio per la migliore interpretazione a Sebastian Stan in A different man di Aaron Schimberg. Non è colpa dell’attore, ma della parte: un uomo deforme che decide di sottoporsi a un’operazione chirurgica per poi capire che nella civiltà della spettacolarizzazione, come direbbe Debord, è meglio essere differente. Mah! Il premio per la migliore performance per l’ attore non protagonista va alla gelida ed eccezionale interpretazione di Emily Watson, l’aguzzina suor Mary, schiavizzatrice e ricattatrice in Small things like these di Tim Mielants. Il viso dolente e scavato di Cillian Murphy, appena insignito ai Bafta, ha fatto da sponda per una favola noir in cui il venditore di carbone Murphy reagisce al trattamento inumano che orfani e ragazze madri subiscono nelle Magdalene Laundries, lavanderie cattoliche irlandesi. Sembra Dickens ma siamo nel 1985. Giusto il premio alla sceneggiatura al migliore dei tanti (troppi!) i film tedeschi in concorso, Sterben di Matthias Glasner, sul rapporto con la morte tra le diverse generazioni di una famiglia disfunzionale. Superata la prima realistica parte sulla vecchiaia, la trama offre un notevole imprevisto grottesco alla Toni Erdmann, in cui si presta il fianco con notevole comicità all’implosione della famiglia borghese e alla sconfitta di una generazione di mezzo che non vuole crescere.
Per fortuna solo il minore dei premi, quello per il miglior contributo artistico, al film austriaco Des Teufels bad di Veronika Franz e Severin Fiala che giustifica una gran voglia di sadismo e grand-guignol (il produttore è Ulrich Seidl e abbiamo detto molto) esercitandola sulla follia delle donne nell’Austria rurale del Settecento. Il tema serio dell’abbrutimento dei rapporti e della solitudine nella condizione femminile è ridotto a sgorghi di sangue e coltellate ai bambini.
Niente al più gettonato My favourite cake di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, privati di passaporto dalle autorità di Teheran come Panahi e Rasoulof. A mani vuote anche l’Italia. Peccato per la regia controllata e di standard internazionale di Piero Messina e il suo Another End, racconto distopico sull’elaborazione del lutto attraverso l’Intelligenza artificiale con un eccellente Gael García Bernal.
Cristina Battocletti