C’è ancora domani. Paola Cortellesi gira e interpreta un film sorprendente per trama e regia, raccontando di una madre di famiglia romana, che nel Dopoguerra intesse la resistenza sotterranea delle donne nel primo suffragio universale
Che per Paola Cortellesi l’esordio alla regia con C’è ancora domani non sia un capriccio lo si capisce già dalla scelta del bianco e nero: roba da far mettere le mani nei capelli ai produttori. Negli ultimi anni in pochi son riusciti a farla franca: Michel Hazanavicius con The artist nel 2011, Paweł Pawlikowski con Ida nel 2013 e nello stesso anno Alexander Payne con Nebraska.
Ci vuole urgenza, ritmo e sostanza per sopravvivere “sbiaditi” nel mondo del grande schermo dagli effetti speciali stroboscopici. E C’è ancora domani ha tutte queste doti, oltre all’ eccellente fotografia di Davide Leoni che illumina la vita di Delia, detta De’, interpretata dalla stessa Cortellesi. De’ ogni giorno rigoverna il suo seminterrato del Testaccio a Roma, poi aggiusta ombrelli, fa le punture nelle case degli altri, lava i panni dei signori. Siamo nella metà degli anni 40 e non c’è niente di tragico in questa corsa alla sopravvivenza, né nel cane che urina sui suoi vasi al ritmo della canzoncina di Fiorella Bini Aprite le finestre, né nel ceffone mattutino che il marito Ivano, detto Iva’ (Valerio Mastandrea) le impartisce come “cura” giornaliera.
Come molte donne maltrattate De’ sogna un amore meno brutale di quello che cova dentro casa, dove gli schiaffi e le botte volano tanto per sfogarsi. E vagheggia una passione giovanile, Nino (Vinicio Marchioni), che poteva essere quello giusto e non è stato.
Proprio qui sta la chiave di volta del film con la sceneggiatura scritta dalla stessa Cortellesi, Furio Andreotti e Giulia Calenda, riservando snodi sempre sorprendenti di trama, con i piedi ben piantati a terra delle donne che incassano intessendo una forma di resistenza sororale sotterranea, molto più astuta di quello che gli altri si aspettano, in attesa di una parità di genere che muove i primi passi con il referendum del 2 giugno 1946.
È una sublime intelligenza pratica quella che guida De’ a stravolgere il destino della figlia Marcella (Romana Maggiora Vergano), deviandola rocambolescamente da un futuro di casalinga scritto nella consuetudine. Ed è intelligenza quella che ha guidato Paola Cortellesi a circondarsi di bravissimi attori, in primis, Emanuela Fanelli, nel ruolo di Marisa – donna libera e felicemente sposata contrariamente a De’ –, senza temere la concorrenza di un’omologa sul terreno della comicità, ma anzi rafforzando l’interpretazione di entrambe. Con loro c’è Valerio Mastandrea, marito rozzo e guascone, dal linguaggio fescennino cinico e fatale a tratti grottesco; Giorgio Colangeli, impeccabile suocero Sor Ottorino, allettatosi solo per sfinire ulteriormente De’, che di fatto gli fa da badante.
C’è intelligenza anche a far propria la lezione della Commedia all’italiana, senza imitarla sterilmente, ma impastandola con le mossette della bocca e movimenti quasi impercettibili di spalle e braccia che rendono Cortellesi una maschera originalissima nel senso nobile della Commedia dell’Arte.
Quando, nel culmine dell’angheria di Iva’ si arriva a sfiorare la retorica, ecco che Cortellesi si inventa la trovata delle ballate musicali. La richiesta di perdono di Iva’ a De’ si consuma sul tappeto di Nessuno, cantato da Musica Nuda, mentre Iva’ riscopre un poco di galanteria con mosse burattinesche. All’inizio, a chi scrive il passaggio brutale dallo swing del Dopoguerra alle canzoni di Dalla, Silvestri, Concato è apparso un poco brutale. Ma alla fine è stato chiaro che le canzoni sono una lunga corda con cui la regista unisce le donne dell’altro secolo a quelle di oggi per ringraziarle di aver preparato il terreno in tempi in cui non si poteva fare niente di diverso che essere tenaci.
Brava Cortellesi, che dietro la macchina da presa continua nel solco di un civismo che contraddistingue tutta la sua carriera di comica, autrice, cantante, attrice, imitatrice con la meticolosità che ha accompagnato ogni suo sketch, canzone, o ciak. Brava perché il film ha fatto incetta di riconoscimenti al festival di Roma, dove ha vinto il premio del pubblico (oltre al premio speciale della giuria, menzione speciale miglior Opera prima), ma soprattutto perché riempie le sale con il passaparola, a dimostrare che il cinema è vivo se i film sono buoni, senza necessariamente aspettare uno sbarco dall’America. Brava anche a rappresentare una storia di femminismo senza assolutismi, raccontando una donna che si mette il rossetto non per amoreggiare, ma per baciare la Repubblica che verrà.
4 stelle
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