Alla Berlinale il bel documentario di Pietro Marcello sul cantautore bolognese con interviste rare e molto materiale d’archivio
Scordatevi il Dalla clownesco che cantava “Attenti al lupo” come in una scena da avanspettacolo, il Dalla con il riporto biondo, la camicia aperta sul petto e collane in abbondanza. “Per Lucio”, documentario di Pietro Marcello, alla 71esima edizione della Berlinale, nella sezione Special, racconta il cantautore bolognese quando non era ancora l’artista entrato nel mito con la coppola sulla testa e gli immancabili occhialini tondi, ma un jazzista con un’estensione vocale eccezionale, già istrionico ma non ancora personaggio, con un certo candore nel linguaggio preciso e chirurgico.
Per il cantautore bolognese marzo è un mese cruciale. Dalla era infatti nato il 4 marzo 1943 e nella stessa data, 69 anni dopo, si sarebbero celebrati i suoi funerali, tre giorni dopo la sua morte, avvenuta il primo marzo 2012 a Montreux per un infarto. 4 marzo 1943 è anche il titolo di una celeberrima canzone, approdata a Sanremo nel 1971 e lì censurata. “Compiva 16 anni quel giorno la mia mamma” recita una strofa della canzone, scritta con Paola Pallottino, e che Pietro Marcello ha ritenuto di inserire nel racconto biografico dell’artista, cui ha affiancato la storia dell’Italia del tempo.
La mamma di Lucio, Iole, compare nel documentario, assai simile a lui, allo Zecchino d’oro con tanto di Mago Zurlì vestito da Principe Azzurro. Partecipa con serietà alla gag in cui è stata coinvolta e si lamenta della barba e dei capelli lunghi del figlio. D’improvviso le chiedono come si chiama e lei risponde con il cognome come a scuola, “Dalla”, ed ecco che da dietro sbuca Lucio con una camicia di seta, che gli evidenzia la pancia, spettinato, sornione, pieno di affetto, privo dell’allure da mago che avrebbe acquisito nel tempo. Una comparsata quasi naive, come era la televisione di allora, in cui c’era ancora spazio per l’imprevisto e per la lentezza.
Non che Lucio non avesse una propensione per l’esibizione: il regista ci offre un’intervista in cui si fa ritrarre sul vagone di un treno, fermo sui binari, con il gelato del microfono che sbuca dalla camicia, fissato chissà in che modo sul petto e la chitarra appresso. Risponde argutamente, sempre pronto alle domande provocatorie del suo intervistatore, ma rimane spiazzato quando gli danno del bugiardo, anche se poi il volto si allarga in un sorriso.
Racconta i tempi difficili, quando non aveva soldi per mangiare e dormiva per strada, definendosi un precursore degli hippie e non per scelta. Il primo “brutto” che emerge in un mondo patinato di cantanti belli, da Morandi a Mal. Non c’è mai traccia di tragedia nelle sue parole, spiega una normale escursione nella vita di un artista indigente, condita e cullata dal bell’accento emiliano rotondo. Racconta, senza odore di leggenda, il percorso di musicista arrivato accidentalmente al canto: lui era un clarinettista, un jazzista acrobatico, un talento naturale. Questo non lo dice, ma tutti lo pensiamo.
Marcello appaia alle parole dell’autore quelle di un’Italia rurale che entra nell’era industriale, con i racconti degli operai che si trovano spiazzati davanti all’enormità dei macchinari della Fiat, allora vera sfamatrice di mezza Italia, giunta a Torino con le valigie di cartone. Suonano le note e le parole del brano “Intervista con l’avvocato”, dove è protagonista Gianni Agnelli, patron della Fiat. Il testo è di Dalla e di Roberto Roversi, poeta e scrittore bolognese, rigoroso e intransigente intellettuale che regalò a Dalla canzoni sofisticate e impegnate, che Lucio seppe amplificare con la musica. Della fortunata coppia Marcello sceglie diversi brani, “La canzone di Orlando”, “L’operaio Gerolamo”, “La borsa valori”, “Mille miglia”. Fanno parte della cosiddetta trilogia (“Il giorno aveva cinque teste”, 1973, “Anidride Solforosa”, 1975, “Automobili”, 1976), tre album in cui vi è “Nuvolari”. Le bellissime strofe dedicate al pilota di Mantova hanno un corredo di immagini d’archivio eccezionale, con le auto che sbandano e la folla che si muove per non farsi travolgere nelle città sporche e vecchie, come formiche spazzate dal vento.
Pietro Marcello passa poi alla seconda fase, quella dell’autonomia dell’artista, che lo fa diventare il one man band di cui ha lasciato traccia nei nostri anni con capolavori come “Quale Allegria”, “Come è profondo il mare”, “Mambo”, “Balla balla ballerino”, “Futura”.
Non era facile raccontare un’icona non solo musicale per l’Italia senza cadere nel dèja vu e nella banalità e Pietro Marcello ci riesce tirando il suo filo personale, intimo e politico. Scelta vincente quella di tenere come fili conduttori le interviste al manager Tobia, messo a tavola con l’amico d’infanzia di Lucio e filosofo, Stefano Bonaga, dalla camicia e dall’abbronzatura sgargianti. Entrambi mai encomiastici, sempre sull’onda di una nostalgia umana, senza sconti.
Il regista racconta la genesi della sua passione attraverso i dischi ascoltati da bambino sul giradischi del padre e l’incontro personale avvenuto a Bologna in occasione della presentazione di un precedente documentario del regista, “La bocca del Lupo”, di cui sono presenti spezzoni nel documentario, mescolati al materiale trovato negli archivi dell’Istituto Luce Cinecittà, della Fondazione Cineteca di Bologna, della Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia, dell’Archivio Audiovisivo del movimento operaio e democratico e della Fondazione CSC – Archivio Nazionale Cinema d’Impresa.
Anche questo fa parte dell’omaggio ai nullatenenti, alla marginalità, al talento, alla generosità su cui Pietro Marcello ha costruito una filmografia da vero autore (“Il passaggio della linea”, 2007, “Bella e perduta”, 2015, “Martin Eden”, 2019) e condivide con Dalla, che fu tra i primi a cantare barboni, prostitute e ultimi di ogni tipo.