I fantasmi d’Africa sbarcano sulla piattaforma: su Netflix c’è “Atlantique” di Mati Diop

«Atlantique» è il notevole esordio della regista franco-senegalese che racconta in un fantasy una storia di ragazzi rapiti dal mare. Su Amazon il film sul lockdown

Mentre si aggirava per le strade di Dakar, città d’origine del padre musicista, Mati Diop avvertiva l’oppressione di una presenza spettrale e soprannaturale. Così, quando ha deciso di girare il suo primo lungometraggio, ha voluto restituire quella sensazione, raccontando una storia di fantasmi ambientata in Africa, Atlantique, disponibile su Netflix, con cui ha vinto il Gran Prix a Cannes nel 2019. Grazie a quel riconoscimento, Diop è stata proiettata nell’empireo del cinema autoriale, associata all’ambivalente primato di unica regista africana ammessa fino ad oggi in concorso per la Palma d’oro. In verità, questa donna, nata nel 1982, molto avvenente, tanto sottile da apparire sempre in predicato di rompersi, è nata a Parigi da madre francese e ha messo per la prima volta piede in Senegal a dieci anni. La categorizzazione di genere, sempre piuttosto pericolosa, non ha però eclissato il valore della pellicola, che riesce a essere al contempo tenera e di denuncia, intensa anche nei momenti in cui la regia è più “sporca”. Atlantique racconta di una generazione di ragazzi africani, perduta e ingannata, costretta a prendere il mare per non morire di inedia e di corruzione. «A Dakar tra il 2000 e il 2010 c’è stata una massiccia ondata di emigrazione, partita sui barconi della speranza, in balia dell’Atlantico per raggiungere la Spagna. Alcuni ce l’hanno fatta, ma molti sono scomparsi tra le onde.


Quando la gente muore in mare, non c’è mai una vera fine, perché non si può ritrovare il corpo. Rimane allora negli altri come una presenza fortissima». Figlia della generazione che ha amato Twilight, Diop reinterpreta la realtà secondo il genere fantasy, compiendo un’operazione di rigenerazione simile a quella che Tarantino ha fatto con i Bmovies. Atlantique è imperniato sulla storia d’amore clandestino tra Suleiman (Ibrahima Traoré) e Ada (Mame Bineta Sane), promessa in sposa a un uomo facoltoso. Ma il salto avviene quando l’innamorato tutto a un tratto scompare assieme ai suoi amici. Lo sguardo di Diop ha poco a che fare con la tradizione cinematografica africana. «Non ero interessata a questo filone, perché temevo di riscontrare tracce inconsce di colonialismo, senso di inferiorità. Temevo di non trovare la libertà e la fierezza che riconoscevo nei film di mio zio», il regista, poeta e compositore Djibril Diop Mambéty, autore dell’acclamato Touki Bouki (1973), morto nel 1998.

«Avevo paura che le pellicole non mostrassero a sufficienza l’orgoglio delle proprie radici». In Atlantique di africano c’è una forte impalcatura sentimentale, utilizzata soprattutto per far da spalla al thriller. «Mentre raccoglievo le testimonianze dei miei coetanei senegalesi, mi venne spiegato che quando uno di loro prende la decisione di partire, di fatto è già morto. Ho cominciato allora a scrutare chi aveva deciso di emigrare: ho realizzato che era presente solo fisicamente, mentre la mente effettivamente era già altrove». Diop non si può dire un’indigena, ma lo è quasi diventata dopo la scelta di radicare il suo cinema in Senegal. «Ogni volta che mi allontanavo sentivo che dovevo tornare». Il fatto di sentire il Senegal come la propria casa, con la giusta distanza, ha spogliato il suo sguardo dall’entusiasmo o dal pregiudizio dello straniero e le ha evitato di cadere nella baracconata del folklore da realismo magico nel riprendere momenti tradizionali, come un matrimonio. «Sono sempre stata affascinata dall’estetica e dall’immaginazione della cultura musulmana, molto raffinata ed evocativa. Ma di fatto ho trasformato il culto dei morti, facendo reincarnare il loro spirito nel corpo delle donne. Mi piaceva l’idea che portassero sulle loro spalle una battaglia civile. Per questo non sono infastidita se mi mettono nella teca delle “registe africane”. Se questo serve perché le donne mi prendano ad esempio per emanciparsi, ne sono felice».Recentemente Prada ha scelto Mati Diop tra le registe del Miu Miu’s Women’s Tales series per raccontare il lockdown. La regista, anche attrice – ha debuttato nel 2008 in 35 Shots di Claire -, nel corto In my room, su Amazon Prime, dialoga ancora con altri fantasmi: quello della nonna, mancata da poco, quello di Violetta della Traviata, e quello della solitudine nei palazzoni di una Parigi glaciale nel silenzio della quarantena. Mentre la macchina da presa spia le altre anime in pena negli appartamenti-celle, che circondano il suo. Benvenuto nuovo talento.
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Cristina Battocletti