Béla Tarr non girerà più film. Il suo proposito è ferreo, nonostante la sua ultima opera, Il cavallo di Torino, abbia vinto l’Orso d’argento, gran premio della giuria alla Berlinale nel 2011. Il regista ungherese si dedica esclusivamente alla didattica, seguendo giovani cineasti, come farà a Locarno per L’immagine e la parola, dal 29-31 marzo, l’iniziativa primaverile del Locarno Festival. Qui terrà un workshop ed incontrerà il pubblico in occasione della proiezione di Il cavallo di Torino (2011) e Almanacco d’autunno (2000), prima di ritirarsi con un gruppo di studenti da lui scelti.
La rassegna «L’immagine e la parola» prevede tre giorni di proiezioni, letture e incontri per esplorare la relazione tra immagine in movimento e parola scritta. Tra i protagonisti della manifestazione nelle passate edizioni, ci sono stati Sokurov, Reitz, scrittori come Emmanuel Carrère e artisti come Lorenzo Mattotti.
La relazione tra immagine in movimento e parola scritta è particolarmente interessante in Béla Tarr, classe 1955, la cui filmografia indugia in lunghissimi piani sequenza. Oltre a Il cavallo di Torino e Almanacco d’autunno, Tarr ha girato
Nido familiare ( 1977) , il corto Hotel Magnezit (1978), L’outsider (1980), Rapporti prefabbricati (1982), Macbeth (per la televisione, 1982), Perdizione (1987), Satantango (1994), Viaggio nella pianura ungherese (1995), Le armonie di Werckmeister (2000), L’uomo di Londra ( 2007) , tutti esclusivamente in bianco e nero, indagando sul degrado umano e l’impotenza dell’uomo di fronte alla sua finitudine. Film mastodontici, non adatti al montaggio frenetico contemporaneo, nichilisti, di una poesia struggente, insita anche nella ripetitività del gesto, che lo hanno sempre relegato ai margini della cinematografia, come regista di culto. In Italia li abbiamo visti solo su Fuori orario. Ha un dialogo ruvido e laconico, ma comunque molto espressivo della sua filosofia di vita e cinematografica.
Come si rimane fedeli alla sceneggiatura quando si usano piani sequenza così lunghi?
«Non uso sceneggiature, non le ho mai usate nella mia vita perché le parole sono diverse dalle immagini. Mi lascio ispirare dai posti, dalla gente»
Molti dei suoi lavori traggono però origine dalle storie di László Krasznahorkai
«Il cinema e la letteratura hanno linguaggi molto differenti. László Krasznahorkai ne usa uno bellissimo e molto interessante. Io provo a seguire il suo spirito e cerco di realizzare concretamente il suo spirito, ma non credo negli adattamenti. A me non interessano le parole, ma le situazioni, i personaggi, il significato che si vuole trasmettere»
Quali altri scrittori l’hanno ispirata?
«Il mondo è pieno di grandi autori. Ogni scrittore ha differenti linguaggi e punti di vista».
Per esempio ne Il cavallo di Torino racconta il momento in cui Nietzsche baciò il cavallo frustato crudelmente da un vetturino
«La sua sentenza “Dio è morto” è il punto di partenza di questo film. Da lì si può partire per realizzare l’antigenesi. Dio ha fatto il mondo in sei giorni e noi compiamo questi giorni a ritroso»
Lei rimarrà a Locarno per otto giorni per produrre dei cortometraggi con dieci giovani cineasti che arrivano da tutta Europa, che dovranno ruotare attorno al tema “montagne, solitudine, desiderio”
«Si tratta solo di una traccia. Se sei giovane, devi guardarti attorno e fare delle associazioni spontaneamente. La cosa più importante è quello che vedono e che trasformano per condividerlo con altre persone. Ognuno deve articolare lo sguardo nel suo personalissimo modo di vedere la vita. Io non sono un insegnante di scuola, posso solo trasferire un senso di avventura e di libertà».
Le richieste di partecipare alla masterclass sono state moltissime, lei ha dovuto compiere una scelta tra decinedi candidati
«Il mio criterio di scelta è stata la somiglianza con il mio modo di vedere le cose. Penso di non poter lavorare assieme a chi è troppo diverso da me. Questo non significa che chi è stato escluso non abbia del talento. Lavorare con dieci persone in armonia è molto impegnativo, per cui ho avuto bisogno di una cerchia ristretta e omogena a me. Capiremo insieme che cosa fare, voglio prima comprendere la loro natura e come lavorano. Poi troveremo la chiave».
Lei trova che i nativi digitali abbiano un rapporto diverso con l’immagine rispetto alla sua generazione?
«Non credo nella categoria della generazione, io credo in un gruppo di persone forti che abbiano una visione e uno stile proprio»
La sua decisione di non girare più film è definitiva?
«La mia creatività ha trovato altri modo di esprimersi . Non mi interessa fare film “canonici”. Lavoro per il wienerfest, per il teatro, faccio istallazioni, motion picture e molte altre cose assieme, come una mostra ad Amsterdam. Il fatto che io non stia girando un film, non significa che io non stia lavorando. Lo sto facendo con molta gente, ogni giorno»
Secondo lei questa sarà l’evoluzione del cinema?
«Non ho mai pensato a come evolverà cinema, saranno i giovani a trovare la strada che vogliono»
Ma ci sono alcune nuove leve del cinema che stima?
«Certo. Pedro Costa, Carlos Reygadas, Apichatpong Weerasethakul»
La critica ha spesso paragonato la sua filmografia al Neorealismo italiano
«Il Neorealismo italiano ha uno spirito e una storia differente dalla mia. I miei film sono vicini alla realtà, ma questo è tutto»
Perché ha girato in bianco e nero?
«Perché mi piace il bianco e nero e perché non ho nessuna ragione per essere diverso da quello che sono»