I legami affettivi contano più di quelli di sangue, sostiene Kore-eda Hirokazu in Shoplifter, ovvero taccheggiatori, delizioso film che dirotta l’attenzione del regista giapponese ancora una volta sulle dinamiche familiari nel Giappone contemporaneo – l’ultima opera è Ritratto di famiglia con tempesta (2016) – e ancora una volta ponendo la telecamera ad altezza di bambino e dell’adulto in cui alberga tenacemente un riflusso infantile.
La prima immagine della pellicola è sfocata, come la verità che Kore-eda Hirokazu ci vuole presentare. Siamo tra gli scaffali di un supermercato e, in primo piano, appare il volto di un bellissimo bambino, Shota (Jio Kairi), con i lunghi capelli da ribelle, che potrebbe avere una decina d’anni. Shota assieme a un adulto, Osamu Shibata (Lily Franky), mette in atto una ben oliata strategia di furto di prodotti alimentari: rincorre i due personaggi un tappeto di musica allegra che ricorda le bravate di Bonnie e Clyde. Prima di ogni sottrazione il bambino compie una gesto che assomiglia a un rito magico e che ha il valore di portare fortuna. Padre e figlio, perché questo sono Osamu e Shota (Jio Kairi) – o potrebbero esserlo – sulla strada del ritorno dal supermercato notano una bambina di cinque anni, Juri (Sasaki Miyu), da sola sul balcone di casa: una scena che devono aver visto molte volte, perché, mossi da compassione, decidono di prenderla con loro e nutrirla. La portano in una baracca che ancora resiste nonostante la pianificazione urbana condominiale circostante. La capofamiglia è una vecchietta, Hatsue (Kiki Kilin), poi ci sono una donna, Nobuyo (Ando Sakura), moglie di Osamu e madre di Shota e Aki (Matsuoka Maayu), nipote della nonna Hatsue. La bambina viene accolta con circospezione e apprensione: un’altra bocca da sfamare in un contesto poco grasso e con lo spettro che quella gita della piccola possa configurarsi come un sequestro di persona. Tuttavia, quando la nonna intravede cicatrici e bruciature sul corpo di Juri, decide di passare sopra al possibile rischio di finire in prigione e la bambina viene inglobata nel singolare nucleo familiare: una decisione presa nella leggerezza e nell’allegria che sembra dominare la casa. E’ un unione di anime traballanti quella della baracca e sicuramente fuori legge: si vive appunto di piccoli furti, di gioco d’azzardo (la nonna), di semi prostituzione (Aki), di sottrazioni indebite (Nobuyo). Ma ogni atto sembra la conseguenza necessaria di quella macchina feroce che è la vita quotidiana per chi non è riuscito a rimanere nei binari della regolarità, per chi è più fragile e meno intraprendente, ma sa amare le persone che hanno bisogno nella generosità e nell’urgenza dei sentimenti.
Nel momento in cui, Shota per salvare la sorellina viene acciuffato durante un furto l’impalcatura bislacca ma armoniosa di quella famiglia circense, dove perfino i nomi si scopriranno inventati, precipita e la verità assume tutt’altra luce, quella della gente che giudica col metro della legge e del sensazionalismo mediatico.
Kore-eda Hirokazu con Shoplifter ha regalato un film bellissimo, che porta ai giorni nostri l’ironia degli ambienti casalinghi di Ozu, dileggiando l’ossessiva formalità nipponica con un tono gentile, garbato e rispettoso. Il regista giapponese migliora ancora l’esplorazione del mondo infantile che tanto gli sta a cuore, come ha dimostrato con Father and Son (2013) e Little sister (2015), in un cinema di rara omogeneità e bellezza.