Autore raffinato, profondo indagatore, a volte eccessivamente intellò, dei rapporti di coppia e della psicologia femminile, Benoît Jacquot, classe 1947, porta sugli schermi dal 3 maggio Eva basato sul romanzo Eve di James Hadley Chase. Un thriller che vede protagonista una Isabelle Huppert calcolatrice, subdola, materialista, che conferma la fama di Jacquot di saper affinare le capacità delle attrici anche in ruoli estremi. Un’attitudine alla maieutica, iniziata quando un Jacquot diciassettenne faceva da assistente alla regia per Angelica e proseguita in una lunga carriera spesso di nicchia, ma di alta sartoria cinematografica. Per il regista francese il primo successo di critica e di pubblico arriva con La fille seule (1995) che lancia una giovane Virginie Ledoyen e Le septième ciel (1997) con la bravissima Sandrine Kiberlain. Allora Jacquot aveva già diretto Huppert in Storia di donne (Les ailes de la colombe) nel 1980; seguiranno Isabelle Adjani (Adolphe, 2002), Catherine Deneuve (Princesse Marie, film tv del 2004), Isild Le Besco ne L’intouchable (2006), Léa Seydoux, Diane Kruger e ancora Virginie Ledoyen in Addio mia regina (2012), Charlotte Gainsbourg e Chiara Mastroianni in Tre cuori (2014), e di nuovo Seydoux in Diario di una cameriera (2015), quarta rivisitazione del romanzo di Octave Mirbeau, pubblicato nel 1900. In tre anni Jacquot, dal 2014 al 2017, lavora a due remake di pellicole già interpretate da Jeanne Moreau, che fu dapprima Eva per Joseph Losey nel 1962 e poi, nel 1964, la cameriera per Luis Buñuel. Un’ossessione per Moreau? «Purtroppo non ho mai avuto occasione di lavorare con lei e confesso che è un’esperienza che mi manca. Forse è il mio modo di girare con il suo fantasma – scherza il regista alla Berlinale, dove ha presentato Eva e dove lo ha incontrato il Sole 24 Ore -. Penso si tratti di una coincidenza, dovuta al fatto che i registi che hanno diretto Jeanne Moreau sono quelli che ammiro di più. Un processo che ha a che fare con la comunione spirituale che vivo con questi artisti. Eva e Diario di una cameriera non sono, difatti, le opere più conosciute, né classici della filmografia di Losey e di Buñuel. E lo stesso posso dire della versione del 1946 di Jean Renoir con Paulette Goddard del romanzo di Mirabeau».
Quella tra Jacquot e Isabelle Huppert è una relazione professionale duratura e ripetuta, iniziata, appunto, da Storia di donne (Les ailes de la colombe) nel 1980, proseguita con L’école de la chair (1998), Niente scandalo (Pas de scandale, 1999) e Villa Amalia (2008). «Il nostro rapporto è basato su una fortissima fiducia e sulla stima reciproca. La definirei una sorta di vicinanza: per me Isabelle è una specie di sorella cinematografica. Abbiamo cominciato a lavorare in questo mondo nello stesso momento e anche se la carriera, le peripezie e le stagioni della vita ci hanno trasformato, per me lei è quella del primo giorno. Riconosco lo stesso approccio alla recitazione, gli stessi interessi, gli stessi rimpianti, punti di vista e prospettive, che per molti versi condivido. Isabelle, dopo Jeanne Moreau, con l’eccezione di Catherine Deneuve, è l’unica attrice francese con un curriculum alle spalle significativo quanto quello di un bravo regista o scrittore». Nel film di Jacquot, Eva (Huppert) è una squillo di alta classe, che Bertrand Valade (Gaspard Ulliel), sedicente scrittore, tenta di trascinare in un gioco di seduzione con cui spera di accendere un’ispirazione letteraria che non ha mai avuto. Nella pellicola di Losey il plagiatore aveva per lo meno un passato artistico, benché di basso profilo; Bertrand nemmeno quello. «Bertrand è un niente. Un nessuno. Lo dice lui stesso alla fine del film: «Il mio nome è nessuno», che è anche il titolo di un western italiano (di Tonino Valerii del 1973, ndr). È un carattere inventato del cinema, della letteratura, anche se nella vita ho conosciuto gente con questo profilo. È un impostore, un usurpatore, un ladro, un individuo perduto con un’esistenza fragile. Cerca di sopravvivere attraverso gli imbrogli e le truffe. Potevo diventare come lui quando avevo vent’anni. Io odio i caratteri gentili nel cinema, i cattivi sono più affascinanti».Eva e Bertrand hanno sempre una doppia faccia: Eva è una prostituta, ma confessa di essere una moglie innamorata, che esercita la “professione” solo mentre il marito, ignaro, è in viaggio d’affari. Bertrand nasconde il suo volto perverso dietro una vita di successi, ripulita dall’amore della fidanzata Caroline (Julia Roy), protagonista e sceneggiatrice di À jamais (2016), il precedente lavoro di Jacquot, ispirato a un romanzo di Don DeLillo. Perfino l’ambientazione del noir ad Annecy (in luogo di Venezia), con il suo casinò, cela ombre di azzardo e nebbia dietro all’apparente cristallinità delle acque del lago e della neve che ricopre tutto. «Il doppio è il punto di partenza. Tutto, attorno ai personaggi, può essere considerato artefatto e teatrale nella misura in cui ogni aspetto è circondato dal dubbio e dalla doppiezza. Esprimo una realtà che può essere esposta l’attimo dopo alla sua negazione». Jacquot aveva letto il romanzo di James Hadley Chase, pubblicato in Francia da Gallimard nel 1946, da ragazzo, dopo averlo scoperto, ben nascosto da altri libri, e per questo ancora più attraente, nella Série Noire collezionata dal padre. «Mi ricordo l’impressione e i sentimenti che mi sono rimasti dalla lettura di questo volume: una sensazione di pericolo, oscurità e ambiguità. Questo è il fil rouge delle novelle di James Hadley Chase, ma soprattutto di Eva, figura che mi ha colpito profondamente ed ha galleggiato dentro di me per tutti questi anni. Non ho mai visto, dopo il 1962, il film di Losey. L’idea è saltata fuori qualche tempo fa, in seguito alla proposta di una produttrice che mi chiedeva di realizzare un noir: ho subito pensato a Eve e a Gaspard Ulliel, perché da anni progettavamo di lavorare assieme. Finalmente avevo trovato l’occasione per costruire su di lui un personaggio, lontano da quelli, pur di grande importanza – Saint Laurent di Bertrand Bonello (2014), È solo la fine del mondo di Xavier Dolan (2016), ndr -, che finora aveva interpretato. Volevo che fosse il nuovo Alain Delon in Plein Soleil di René Clément del 1960. E ora penso per lui un ruolo nella trasposizione sugli schermi di uno dei romanzi di Patricia Highsmith». Eve è stato scritto nel 1946, mentre la pellicola di Losey è stata realizzata nel 1962. Nel frattempo sono passati il ’68 e la rivoluzione dei costumi. Viene il dubbio che un rapporto di sottomissione tale tra un uomo e una prostituta sia poco ipotizzabile ai nostri tempi. Ma il regista questi dubbi non li ha. «Ci sono trame che non invecchiano mai, come i drammi di Shakespeare. La rivoluzione sessuale non ha travolto le tipologie psicologiche che vengono in risalto in Eva. Tra i due protagonisti non c’è un dominante e un dominato: vi è solo una profonda doppiezza».
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