Oscar: nell’orto a stelle e strisce dell’Academy

 Hanno vinto film eccezionali, ma con una egemonia finanziaria, politica
e culturale squisitamente Usa. Bene «Oppenheimer», ottimo «Povere creature!» Solo con «La zona di interesse» Hollywood ha dimostrato una vena universale
Anche se tra ospitate e appelli si danno un allure internazionale, gli Oscar sono e rimangono un affare a stelle e strisce, sia per un tema economico che per un fatto di egemonia politico- culturale. Il grosso del capitale dietro il film vincitore (a parte Parasite di Bong Joon-ho nel 2020) è infatti sempre in dollari, perché la pellicola che si porta a casa il glabro omino spadato finisce per rimbalzare nei cinema di tutto il mondo e chi l’ha finanziata, oltre che rientrare nel rischio (che in Usa continua ad esserci), riesce a fare un bel margine dall’Europa all’Asia. Non a caso registi e attori hanno imparato a dirigere il vapore da sé: lo stravincitore di quest’anno, Oppenheimer di Cristopher Nolan, ha come produttrice la moglie del regista, Emma Thomas; idem per Povere Creature!, in cui Emma Stone è produttrice assieme al regista Yorghos Lanthimos (e altri).
L’Europa, che in passato declassava la cerimonia come un’americanata (lo rimane nei ritmi, impostazioni e risate programmate dello show), si trova ad aspettare la notte dell’Academy come l’arrivo di Babbo Natale, grazie anche allo specchio per le allodole del miglior film internazionale. Hollywood (non i registi) si limita a concederle il ruolo di vetrina per i suoi film, elargendolo come un onore e senza per questo dover rendere il favore sul suo mercato. Tanto non ha più nulla da imparare dal vecchio continente in tema di gusto, politically correct e autorialità, avendo da tempo scavalcato la comfort zone dei musical, polizieschi, western e commedie fatti ad arte. I film in lizza quest’anno non erano meno impegnati della Corazzata Potëmkin e, come sapeva bene l’Urss, per l’appunto, il grande schermo è uno dei migliori veicoli per imporre gusti e modelli, magari anche contro cui lanciare pietre, purché si resti sempre al centro dell’attenzione. Senza dimenticare che sul palco del Dolby la politica è ormai di casa, ospitando belle battaglie, non solo interne, a partire dal MeToo, alla racial equality, a quella attuale sul Medio Oriente.
Quest’anno lo stravincitore è stato, dunque, Oppenheimer sul padre della bomba atomica: un film ancoratissimo agli States, avendo tolto di mezzo anche un comprimario come Enrico Fermi. Ma questo non toglie che rimanga un’opera molto valida, che si è meritatamente portata a casa anche la regia. Nolan è bravo a mescolare i generi spy (Tenet), il trial movie, la ricostruzione storica (Dunkirk) e l’immaginativo visionario (Interstellar), che ha invece irritato una parte del pubblico. Oppenheimer si è conquistato anche il riconoscimento all’eccezionale Cillian Murphy e alla miglior colonna sonora, che avrebbe potuto essere riservata a Barbie di Greta Gerwigh, vero fenomeno rinnovatore del botteghino, cui è stata concessa solo una prebenda per la canzone di Billie Eilish, What was I made for?, tra l’altro la più lagnosa di un film acutamente divertente. Oppenheimer si è preso anche il montaggio (e va bene) e la fotografia, che sarebbe serenamente potuta andare a Povere creature!, che per chi scrive era il miglior film candidato. Lanthimos si è consolato con tre statuette, impossibili da assegnare ad altri per manifesta superiorità: i geniali costumi floreal-vittoriani-artropodeschi di Holly Waddington, il trucco e la scenografia. È stato premiato anche per la miglior attrice protagonista con l’immensa Emma Stone, che proprio non se l’aspettava, visto che si era sbracciata fino a un minuto prima a cantare con il fucsia Ryan Gosling I’m just Ken!, scucendosi il vestito. Stone aveva già vinto con La La Land ed è così giovane e brava che altri ne verranno. L’Academy poteva deviare verso Lily Gladstone di Killers of the flower moon: sarebbe stato il primo riconoscimento forte a un’interprete nativa americana, per altro bravissima. Ma poi perché snobbare così il grande Scorsese? Vabbè il cambio generazionale, ma almeno Robert De Niro come migliore attore non protagonista al posto dell’ancora oppenheimeriano Robert Downey Jr… Meritatissima la sceneggiatura ad Anatomia di una caduta di Justine Triet e Arthur Harari, un sofisticato capolavoro di scomposizione di pregiudizi, questo sì davvero femminista e non Povere creature!, che è una lotta (anche femminista, ma non solo) contro l’ipocrisia e il razzismo. È rimasto nell’orticello Usa, invece, il premio per la migliore sceneggiatura non originale al sagace American Fiction di Cord Jefferson, contro gli eccessi della cancel culture. E, a proposito di politically correct, la migliore attrice non protagonista a Da’Vine Joy Randolph in The Holdovers – Lezioni di vita è suonato più come un tributo al senso di colpa wasp verso gli afroamericani.
Una vera consolazione, invece, il premio per il migliore film di animazione al Ragazzo e l’airone di Miyazaki, mentre è stato un grosso dispiacere l’esclusione di Io capitano. Ma, pur amando il talento visionario di Garrone e la vena favolistica applicata al lato nero dell’immigrazione, niente poteva reggere davanti alla potenza de La zona di interesse di Jonathan Glazer sull’ideatore di Auschwitz. È un film che tramortisce la nostra parte più vigliacca, l’incapacità a opporci a leggi sbagliate, la debolezza di cedere alla calunnia. La zona di interesse è stato premiato anche per il sonoro, per i rumori che non vogliamo sentire. In questo sì, l’Academy ha voluto lasciare l’orto di casa per abbracciare l’universalità.
Cristina Battocletti