Erotico senza essere volgare, «Solo per me» mostra il piacere dello striptease, «Notre corps» entra in un ospedale ginecologico e «Senza prove» parla la negazione della gravidanza
La prima regista a proporre uno sguardo femminile erotico e non libidinoso sul corpo della donna, è stata – a mia memoria e con uno sguardo a posteriori – Liliana Cavani con Il portiere di notte (1974), attraverso un’androgina Charlotte Rampling caduta in un trigger storico-psicoanalitico. La prima, intendo, per la mia generazione, quella degli ex ragazzi nati negli anni 70, figli del pattume televisivo, delle vallette, letterine, veline, ragazze con seno in esplosione nei corsetti del Drive in o nelle nudità-premio di Colpo grosso. Nemmeno al cinema si respirava, oppressi dal dispotismo della vanzinata, dei pornosoft o del Bmovie con bionda o mora lasciva e svenevole e sempre con giarrettiera sotto la gonna.
Il cinema è stato a lungo un luogo confezionato da soli uomini, soprattutto in Europa: le donne hanno fatto una gran fatica a mettersi dietro la macchina da presa (vedi Agnès Varda e Lina Wertmüller), per restare al massimo superbamente “dietro le quinte” da autrici di sceneggiature, come Suso Cecchi d’Amico. Per questo il punto di vista sul corpo femminile è stato di esclusivo dominio maschile. L’anno scorso è uscito un documentario, Notre corps, di Claire Simon sulla vita di un ospedale pubblico parigino in cui passa tutto lo scibile medico legato al corpo femminile. La visione pudica ma ferma della regista entra negli ambulatori e nelle sale operatorie riprendendo coppie con difficoltà a procreare, donne nella crudissima impresa di partorire (e qui si capisce perché si usa il termine “sgravare”), pazienti che si sottopongono alla fecondazione in vitro, quelle affette da cancro all’utero, alle ovaie o al seno. Oltre a giovani ragazze o donne mature che intraprendono il durissimo, dal punto di vista psicologico e fisico, cammino per cambiare sesso. Tre ore sulla magia della Natura, ma soprattutto sulla sua brutalità legata alla specificità generativa della donna.
Dal 21 marzo, con un’anteprima al C-Movie Film Festival di Rimini, saranno in sala due film, distribuiti da Kitchenfilm, notevolissimi per motivi diversi. Il primo, Solo per me, di Lucie Borleteau, per il ragionamento sulla libertà del piacere femminile; il secondo, Senza prove, di Béatrice Pollet per la riflessione sui diritti individuali legati alla gravidanza.
Solo per me sorprende Aurore (Louise Chevillotte) nell’atrio di un locale per spogliarelliste a Parigi, mentre guarda con stupore un uomo uscire da un privée, uno stanzino dove si può godere di una danza erotica in esclusiva. Aurore trova il coraggio di chiedere al cassiere di poter lavorare come exotic dancer. «Prima guarda», le risponde quello. Aurore siede nel pubblico e assiste a uno striptease con recita annessa. Borleteau segue il ventre e le forme di Elody (Laure Giappiconi), nell’ambiguità del suo corpo segaligno tra apparire maschio o femmina, restituisce la carica osée delle mosse, il piglio di sfida, la voglia di rompere tabù. Poi arriva Mia (Zita Hanrot), selvatica e impertinente, peccaminosa e senza freni: insieme inscenano un duetto erotico spinto e divertente. Aurore è colta dalla stessa febbre degli altri spettatori maschi, ma rispetto a loro ha una chance: potersi unire al gioco delle altre ballerine, imparare a mostrarsi per arte e per piacere (per questo era molto più appropriato il titolo originale, À mon seul désir, Il mio unico desiderio).
Non c’è perversione nell’occhio di Borleteau: ci sono devozione, seduzione e sensualità, anche se si è lontani dai vertici di Lussuria (2007) di Ang Lee, uno dei capolavori di estenuazione erotica di sempre. C’è ammirazione per il corpo delle donne, per la sua energia, per il senso cameratesco di provocazione che rapisce e sottomette il desiderio maschile e femminile. Purtroppo Solo per me, a tratti commedia, a tratti film d’amore, mette troppa carne al fuoco. Sarebbe stato sufficiente concentrarsi sul messaggio originalissimo: la libertà sessuale per la donna è un diritto, anche se può essere un rischio. Non tutti gli spettatori sono voyeurs civilizzati in cerca di un’esperienza singolare; capitano anche personaggi sordidi e violenti che considerano il sesso una prevaricazione legittima. Il sex work è un lavoro, non significa prostituzione e non deve coincidere con la certezza di essere vittime.
Lucido, tirato, senza una sbavatura è invece Senza prove, un legal thriller che è una riflessione su una patologia piuttosto sconosciuta: la negazione della gravidanza. Claire Morel (Maud Wyler) è un’avocatessa che vive felicemente nella provincia francese in una bella casa con il marito Thomas (Grégoire Colin) e due figlie in età scolare. Le prime scene del film mostrano un momento di divertimento nella piscina di casa con l’amica e collega di Claire, Sophie Beauvois (Géraldine Nakache).
Mentre Claire e Sophie si tuffano in piscina, uno scatto di Thomas le riprende divertite, ma soprattutto filiformi. Claire è incinta di otto mesi ma la sua mente rifiuta l’ipotesi e il corpo agisce di conseguenza: la pancia non cresce e il ciclo mestruale non si ferma. Nei casi di gravidanze negate l’utero infatti non si inclina, il bambino si sviluppa verticalmente e il feto a volte viene in evidenza solo attraverso indagini radiografiche o ecografiche prescritte per tutt’altra ragione. I primi casi di questa patologia –che tocca indipendentemente dall’età o dalla situazione socio-economica – sono stati registrati nel 160o. Per fare una statistica, in Francia, nel 2018, i casi di gravidanza negata sono stati 304 su 760mila nascite.
Dopo il tuffo, vediamo Claire accusare un malore e cadere a terra, poi il nastro bianco e rosso della polizia circondare la sua casa: un bambino è stato abbandonato nelle immondizie. Basato su testimonianze reali, Senza prove è una fortissima disamina del concetto di maternità, una denuncia dei pregiudizi che gravano sulle spalle delle donne e, a maggior ragione, sulle vittime di negazione della gravidanza che rischiano l’ergastolo, perché, non essendo la loro patologia codificata, subiscono un feroce stigma sociale, che non lascia spazio ad attenuanti. Perfino in Francia, primo Paese al mondo a pretendere una tutela massima della donna inserendo, il 5 marzo scorso, il diritto all’aborto nella Costituzione.
C’è un brano della sceneggiatura – scritta magnificamente dalla stessa Pollet e revisionata da medici, avvocati, giudici, psichiatri e ostetriche – in cui Sophie, che ha assunto la difesa di Claire, domanda all’amica: «A chi appartiene il tuo corpo?» e Claire risponde sicura: «A noi. Nella nostra generazione nessuno è stato costretto ad avere figli». Sophie reagisce: «Non sono d’accordo. Se non hai figli la gente pensa che sei strana. Se osi dire che soffri durante la gravidanza o dopo, ti bollano come una nevrotica e ti imputano le fragilità di tuo figlio, perché siamo programmate per essere delle buone madri». Quando Claire racconta di aver scoperto, al momento della sepoltura del padre, nella tomba di famiglia una piccola bara bianca, di cui nessuno sapeva spiegare la provenienza, Sophie registra un’altra rimozione. «Ho l’impressione che Claire porti un peso che non le appartiene», come un dolore nascosto nella famiglia, legato alla maternità… Alcune donne hanno legami troppo forti con il passato», commenta, iniziando ad approfondire gli studi psichiatrici sulla “lealtà inconscia” delle donne verso il destino del ramo femminile della propria famiglia. Il marito di Claire si dispera: non saranno queste argomentazioni irrazionali a far uscire sua moglie dal carcere. Ma esiste una scienza, l’epigenetica, che mostra come l’eredità emotiva si scriva chimicamente nel nostro Dna e possa essere così trasmessa per due generazioni. Senza prove è un ottimo thriller psicologico e soprattutto un modo di aprire ulteriori porte al diritto della donna di avere il dominio sul proprio corpo.
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