tutti al «bagno»
sul lago salato
Trieste. Settant’anni fa tornava italiana la città letteraria per eccellenza, dove ai Caffè parlavano Joyce, Svevo, Saba, Slataper, Bazlen, Giotti e Stuparich. Qui ha origine il bel libro di Piero Dorfles
E chi dormiva a Trieste la notte tra il 25 e il 26 ottobre di settant’anni fa, quando nel 1954 la zona A dall’amministrazione militare alleata fu restituita a Roma? Non gli italiani che avevano passato la notte a far fraia (festa, per usare un eufemismo), aspettando che i bersaglieri bucassero l’alba di corsa, per poi assembrarsi in piazza dell’Unità d’Italia. Lì un tappeto di teste rivolte al cielo – dove sfrecciavano gli F84 dell’aereobrigata di Treviso – aspettava l’evento clou delle 11,30, quando l’incrociatore Duca degli Abruzzi avrebbe attraccato al Molo Audace, perfezionando l’italianità della più bella delle figlie degli Asburgo.
Non hanno certo dormito i comunisti che speravano di ricongiungersi alla Iugoslavia (c’è un libro interessante di Diana Napoli, Il mondo in testa, sul cominternista Vittorio Vidali), né gli anticomunisti sloveni che aborrivano Tito, ma volevano che la città finalmente diventasse loro. Forse non avrà dormito nemmeno Nilla Pizzi, che nel ’52 vinse Sanremo con Vola Colomba, con cui spediva il candido volatile a San Giusto, il colle nel cuore della città, per rassicurarla che non sarebbe stata più sola. Trieste di «spiriti erranti, solitari e rinnegati» scrisse Jan Morris, madrina di una folta schiera di genialità precoci: dalla sceneggiatrice e pittrice Leonor Fini al filosofo critico d’arte e pittore Gillo Dorfles, dal collezionista e mercante d’arte Leo Castelli a Wanda Wulz, esponente del fotodinamismo. Ma soprattutto di scrittori: da James Joyce a Italo Svevo, da Umberto Saba a Virgilio Giotti, da Giani Stuparich a Bobi Bazlen, da Scipio Slataper a Srečko Kosovel a Boris Pahor, per passare il testimone a Claudio Magris, Paolo Rumiz, Mauro Covacich e molti altri. In primavera aprirà Lets, il Museo Letteratura Trieste e la città rinforzerà la vocazione all’arte che esercitò soprattutto nel XIX e XX secolo, perché i creativi arrivano dove c’è bellezza sì, ma ancora di più dove c’è lavoro e un costo della vita decente (vocazione che potrebbe perdere Milano se si gentrifica ancora un poco). E a quei tempi, la Vienna bianca, mitigata da certa latinità adriatica, univa al fascino del grande “lago salato” – come Gillo Dorfles chiamava il mare –, all’atmosfera da «solarità mediterranea e malinconia nordica» per dirla con Magris, alla scapestratezza esotica (È Oriente, suggerirebbe Rumiz), fiorenti e robusti commerci con caffè e assicurazioni grazie al Porto Franco, istituito nel 1719 da Carlo VI.
Trieste è però anche la città delle contraddizioni, non a caso fu la prima sponda italiana in cui attecchì la psicoanalisi con Edoardo Weiss, allievo di Freud. Ancora in piazza della Borsa una scritta enorme urla Usa! Uk! Come back!, nonostante qui abbiano imparato a convivere («senza fondersi!» ricorda il traghettatore adelphiano di culture Bobi Bazlen) italiani, austriaci sloveni, serbi, croati, cechi e slovacchi, ungheresi, armeni, turchi e greci. E, a proposito di greci, si chiama Alexandros Delithanassis il proprietario del Caffè San Marco che ha rinnovato con la moglie, Eugenia Fenzi, uno dei luoghi più tradizionali della città, che quest’anno festeggia i suoi 110 anni. Con gli arredi originali del 1914 il Caffè si è trasformato mirabilmente anche in un ristorante con libreria e presentazioni annesse. Vende confezioni di caffè e Vermuoth fatte in proprio ed è editore: la notevole graphic novel di Jurij Devetak sul capolavoro di Boris Pahor Necropoli è un omaggio pubblicato per festeggiare nel 2023 i 110 anni dello scrittore sloveno, mancato nel maggio 2022. Il libro ha un elegantissimo bianco e nero, con un tratto essenziale perfettamente rispondente a Pahor.
Trieste è appunto un posto di gente sgaja, che sa mescolare letture altissime a zampate di popolanità acre, che il dialetto, parlato da tutti, esprime benissimo. La “livella” (non quella di Totò) qui è il “bagno”, gli stabilimenti balneari in città, dove il professore si trova seminudo accanto allo studente (c’è un’ottima università). Ma è anche l’unico posto in Italia ad aver avuto un forno crematorio, la Risiera di San Sabba; qui si sono consumati il genocidio culturale degli sloveni e l’eccidio delle foibe. Il Duce scelse proprio Trieste per proclamare (con tripudio della folla) le leggi razziali nel ’38. Ne sa qualcosa la famiglia di Piero Dorfles, scrittore e critico letterario che ha fatto da guardiano della buona cultura alla Rai con un Pugno di libri. La famiglia Dorelli, Dorflessi, Doier Freis – come ne venne negli anni storpiato il cognome, uscendo per fortuna indenne dalla italianizzazione con perdita della sola Umlaut –, scoprì in quell’occasione di essere ebraica. Ovvero, non lo sapevano Carlo e Gillo, rispettivamente padre e zio di Piero, mai entrati in una sinagoga, educati alla libertà secondo la dottrina steineriana, che i fratelli interpretarono in senso laico, o piuttosto votandosi all’antroposofia, alle danze euritmiche, quando non all’occultismo e alla divinazione. Lo racconta con magistrale ironia – ecco un’altra qualità dei triestini: il witz! –, in un’elegante scrittura l’autore, che rompe la sua leggendaria riservatezza mitteleuropea per indugiare in ricordi personali. Chiassovezzano si chiama il libro, che è un memoir ma anche un “romanzo gotico”, perché la casa in Toscana dove i “Dorflessi” trovano rifugio è la protagonista e perché il periodo raccontato è quello tragico che va dall’8 settembre ’43 all’8 maggio ’45.
Ogni stanza (da quella del gatto a quella azzurra dell’eros) racconta qualcosa dei membri di una famiglia che l’autore definisce non eroica, ma temeraria, forse un poco incosciente: nessuno imbraccia le armi, bastano la guerra, gli esodi, le deportazioni dei cari (degli 800 ebrei triestini deportati ne tornano 23), la ricerca incessante del cibo e le rocambolesche lotte per le “cause di arianità”, in cui si certificavano battesimi mai avvenuti, o la cosiddetta “discriminazione”, ovvero il permesso per gli ebrei di continuare la propria attività per essersi distinti per meriti patriottici. È un libro con un’aneddotica assai divertente, ma è anche una commovente riflessione sulla rimozione ebraica, sullo sradicamento e lo sconvolgimento di essere perseguitati in virtù di una religione, in questo caso mai praticata, che costrinse due ragazzi appena laureati ad anni di inattività. Il titolo, alquanto bizzarro (ma quello doveva essere), prende il nome della casa a Lajatico in Toscana, paese di gente per bene, che li protesse. Anche quando si profila il dramma, Dorfles mantiene grazia, garbo e la sua traccia sorniona. Si ride, si sorride, ci si intristisce, ma non c’è mai solennità, proprio com’è Trieste che precipita tutto nel profano. Beati i oci.
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Cristina Battocletti