Perfect days è il perfect film di Wim Wenders

Il samurai della poesia e degli umili anfratti
Finalmente torna il migliore Wim Wenders per raccontare
la storia di Hirayama, un addetto alle pulizie delle toilette pubbliche di Tokyo,
per cui libertà e felicità consistono nel godere piccole estasi del quotidiano
Bentornato Wim Wenders. Era da un po’ che il maestro del Nuovo cinema tedesco aveva perso la strada della buona narrativa. Eravamo rimasti incantati, sì, da Pina (2011), sulla grande fondatrice della Tanztheater, o dal Sale della terra (2014), dedicato al fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Ma la zampata della sua spiritualità onnivora sembrava essere stata assorbita tutta dall’angelo dolente del Cielo sopra Berlino (1987) in volo per raccogliere dolore e spaesamento sopra una città infiltrata dal Male.
E invece il suo misticismo laico è rifiorito in Perfect days nella storia di uomo, Hirayama (Kōji Yakusho), che difende come un samurai la sua ricetta di vita dall’impoeticità dei nostri giorni. Wenders per raccontarla è volato in Giappone, dove estetica, rigore, rispetto si declinano fin negli anfratti più umili della società, le toilette, che si trasformano in templi del bene comune. Come le stazioni e gli ospedali, sono luoghi in cui tutti prima o poi devono passare e qui Hirayama avverte la forza tellurica di Tokyo: l’inquietudine dei ragazzi, di cui trova le vestigia la mattina nel disordine e nello sporco, nella irruenza di un giovane che ha bevuto troppo, nella fretta di un manager, nella inconsolabilità di un bambino che si crede perduto, nel pudore di una signora âgée che si impone silenziosamente.
Hirayama pulisce a mani nude questi luoghi, dove tutti sono obbligati a spogliarsi del proprio ruolo, li lucida con perizia con una serie di marchingegni da lui inventati perché ogni essere umano si senta accolto e trovi quel senso di azzeramento e uguaglianza che fuori non esiste. Guarda, ascolta, non protesta anche quando i comportamenti non sono speculari ai suoi (come quello del suo assistente Takashi, Tokio Emoto), mentre la sua etica degli affetti si manifesta di fronte a una nipote, Niko (Arisa Nakano), che si presenta a sorpresa dopo tanti anni, e davanti alla possibile perdita di un amore trattenuto. Il nocciolo interiore di Hirayama non si intacca mai, la sua generosità rimane immutata anche quando sa che i bisogni da soddisfare sono futili e contrari alla sua filosofia di vita.
Oltre alla bellezza di fare bene il proprio lavoro, tra le architetture a chiocciola, i vetri a scomparsa, l’elegante minimalismo, ci sono tante occasioni di incanto: le fronde degli alberi, mosse dal vento, che giocano con la luce e rivelano fugaci apparizioni, chiamate “komorebi”; canzoni e musiche tenacemente ascoltate in audiocassette, dai Velvet Underground a Otis Redding, a Patti Smith, ai Kinks, a Lou Reed, alla musica giapponese di chi è stato giovane tra gli anni Sessanta e Ottanta. Perfect day è uno di questi brani, così vicino alla storia da dare il titolo al film. La sangria bevuta al parco e il cibo dato agli animali dello zoo di Lou Reed equivale per Hirayama a leggere poche buone pagine la sera, tenere in ordine la casa, curare la propria igiene personale, bagnare le piante, scattare foto analogiche di alberi e foglie: difendere insomma con fierezza il proprio angolo di estasi per opporsi alla povertà dei sentimenti. You’re going to reap just what you sow, Raccoglierai solo ciò che semini canta Lou Reed.
Succedono poche cose in questo film e la ripetitività iniziale potrebbe scoraggiare lo spettatore. Ma quando ci si abbandona, il magma poetico sale come un principio rigeneratore e la bellezza delle immagini cementa il messaggio. Intendiamoci, non si tratta di un’opera concettuale, Wenders è un animale cinematografico totale. Di Hirayama non si sa nulla, ma basta che un’auto di grossa cilindrata entri nell’umile cortile della sua casa per capire che è scappato da qualcosa di più grosso di lui. Basta un suo diniego forte con la testa quando gli viene chiesto del padre a fare pensare che un tempo la sua natura è stata calpestata. Il tutto è possibile anche grazie alla notevolissima interpretazione di Kōji Yakusho, che a Cannes ha vinto la palma come migliore attore. E al Giappone, che in questi ultimi mesi occupa il nostro immaginario con la meraviglia dei disegni di Miyazaki (Il ragazzo e l’airone), la storia di Élise Girard (vedi Escobar qui accanto) e il ritorno di Ozu, che Wenders, considera il suo maestro e a cui ha dedicato Tokyo-Ga (1985). In Giappone aveva anche girato le sequenze oniriche di Fino alla fine del mondo (1991).
Questo film calmo e consapevole non è per nulla in contrasto con la filmografia di Wenders, passionale precursore di un modo più libero di fare cinema. Anche nei road movies di cui è cultore – Paris Texas, Alice nella città (1973), Falso movimento (1975), che assieme a Nel corso del tempo (1976) chiudono la cosiddetta Trilogia della strada – ha coniugato la creatività con il tema della liberazione individuale. In Perfect days questa si identifica con la tenace mistica delle piccole cose. «La prossima volta è la prossima volta. Adesso è adesso» spiega Hirayama alla nipote.
E a noi.
4 stelle su 5