L’aurea durata delle pellicole di 90 minuti ormai è appannaggio solo di pochissimi, per il resto si va oltre le due ore. Con le piattaforme si è eclissata la figura dei produttori che sapevano spronare, ascoltare e… tagliare
Qualche anno fa ci fu una specie di sommossa alla Mostra del cinema di Venezia perché il regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche aveva portato in concorso un film, Venus noir, di 162 minuti. Dalla stampa al pubblico tutti avevano protestato: non si doveva sequestrare uno spettatore, anche per ragioni di tenuta di vescica, così a lungo. Era il 2010 e ora la durata di quella pellicola sulla povera ottentotta ridotta a fenomeno circense – che ci aveva tediato non tanto per la durata, quanto per una certa pedanteria snobistica del regista – è del tutto in linea con quella delle pellicole di oggi. L’aurea regola dei film di 90 minuti sembra ormai appannaggio solo di certi maestri, come Woody Allen, Ken Loach e Aki Kaurismäki. Basta mettere il naso nei cartelloni recenti delle sale cinematografiche: Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, 206 minuti, Oppenheimer di Christopher Nolan, tre ore e un minuto, Lubo di Giorgio Diritti, 3 ore mancate per 5 minuti.
Perché il cinema non trova il suo tempo?
Partiamo dalle sale, cui arrivano ogni settimana decine di nuove proposte. Che fa l’esercente quando si trova a programmare filmoni che scardinano il “ciclo biologico” serale, scandito sul ritmo 20, 22.30? Deve prevedere una sola proiezione magari aumentando il costo del biglietto, come è accaduto per Barbie di Greta Gerwig (ancora caro come il fuoco sulle piattaforme). Ma la lamentatio sulla prolissità delle pellicole non viene dai gestori, che mai come in questo periodo festeggiano la primavera di pubblico. Al netto della felicità di chi scrive per la resurrezione del cinema, c’è un discorso serio da fare di rispetto nei riguardi dello spettatore.
Non stiamo ragionando sui film capolavoro come Fannie e Alexander di Ingmar Bergman (312 minuti in forma di miniserie, 188 in sala), di cui se mancasse una sola inquadratura si potrebbe piangere al patrimonio dell’umanità perduto. Né dei primatisti dell’autorialità come Lav Diaz, che meno di tre ore gli sembra un trailer. Ma di pellicole commerciali nel senso più nobile del termine, ovvero di buoni film per una vasta platea.
Perché molti registi “prendono” il tempo e lo ritorcono contro lo spettatore?
Bisogna partire, a mio avviso, dalla rivoluzione tecnologica e, in primis, dalla macchina da presa digitale: ottima resa, nessun costo, né peso della pellicola (non indifferente questo ultimo punto). Ai registi è successo di poter fare meno riflessioni sull’inquadratura e girare a lungo, così tanto da rendere difficile successivamente il taglio in montaggio.
E poi ci sono le piattaforme. Dopo un primo momento di sovrapposizione con il grande schermo, hanno rafforzato l’idea che la sala offra il piacere inestimabile dell’ipnosi collettiva, per dirla con Buñuel, e quello della convivialità. Hanno dato all’utente la possibilità di recuperare titoli a volte preziosi, al regista quella di allungare le proprie opere a piacimento: se la puntata di una serie è passata dai 30 minuti canonici all’ora, perché il film dovrebbe sottostare a costrizioni temporali?
Le piattaforme, che all’inizio offrivano quasi esclusivamente prodotti commerciali, pian piano hanno saputo attirare i grandi nomi del cinema, dando libertà ai registi in termini di budget e, soprattutto, di arbitrio sul final cut. Occasione irrifiutabile: tanto che mentre il festival di Cannes tuonava che sulla Croisette le piattaforme non avrebbero mai (più) messo piede, la Mostra del cinema di Venezia si garantiva ottimi titoli di mostri sacri, prodotti o distribuiti da Netflix, Amazon, Sky, finendo quasi sempre per avere nel palmares una pellicola che avrebbe preso un Oscar.
Ma questa onnipotenza registica può andare a discapito del prodotto. Un esempio, è il commovente film di un grande autore italiano coprodotto da una nota piattaforma, È stata la mano di dio di Paolo Sorrentino: se fosse stato tagliato almeno di mezz’ora sarebbe stata una parabola perfetta di vita e di cinema.
Sempre restando in tema di piattaforme, i più dietrologi sono convinti che i film durino tanto per tenerci incollati e renderci ancora più schiavi della tecnologia di quello che già siamo, sulla scia teorica di Jonathan Crary in 24/7 (Einaudi, 2015). Ma la vera risposta è che in Italia si è in parte perso, anche per l’intrusione delle piattaforme, il ruolo del produttore che corregge, titilla, blandisce, mette in guardia, evitando che il regista si avviti in percorsi tutti suoi, per far venire fuori il film più bello possibile, al di là delle ragioni del borsellino, incontrando così anche il gusto del pubblico. Naturalmente di eccezioni ce ne sono. Una su tutte C’è ancora domani di Paola Cortellesi, diventato un blockbuster, nonostante la storia fosse di improbabile successo sulla carta: un film in bianco e nero ambientato in Italia nel Dopoguerra su una donna picchiata dal marito.
Oggi con il tax credit il produttore rischia assai meno di un Carlo Ponti, Dino De Laurentiis, Fulvio Lucisano. La legge è stata un toccasana per il cinema nostrano e per il settore, che dopo la Commedia all’Italiana si poggiava sulle spalle di pochissimi grandi, come Bellocchio, Bertolucci, Olmi, e poi Garrone e Sorrentino. E commercialmente ai Checco Zalone, agli Aldo Giovanni e Giacomo e agli Antonio Albanese, che hanno sempre fatto prodotti garbati e pieni a loro modo di grazia. Con la legge Franceschini, nel mondo del cinema, in cui il botteghino si risollevava solo con i cinepanettoni, è finalmente arrivata una ventata che ha portato nuove leve, da Rohrwacher a Pietro Marcello, da Susanna Nicchiarelli a Jonas Carpignano, a Michelangelo Frammartino. Ma in mezzo a tutto c’è anche una bella mareggiata di esordi e di film assolutamente dimenticabili. Chi scrive ha visto una quantità di copiature e capolavori di presunzione che un decimo sarebbe bastato.
La soluzione non è tanto nel dispensare fondi, più o meno generosi, e convogliarli solo a chi li merita, come prospetta il ministro Sangiuliano. Sotto quali indicazioni potrebbe agire il dispensatore di fondi? Chi controlla il controllore?
Entusiasmo, urgenza, verità debbono essere i motori delle buone opere. E il rischio imprenditoriale, che è sempre un’ottima guida a fare bene. Il supporto finanziario pubblico dovrebbe promuovere, rafforzando il tax credit, gli esordienti e i più piccoli e indipendenti, che hanno avuto una conferma di gradimento seppur da un pubblico di nicchia. Ed è qui che il fiuto del buon produttore aiuta, tenendo presente che il pubblico è cambiato: l’esercito di venti-quarantenni che hanno riempito le sale per Barbie e Oppenheimer non ha bisogno di doppiaggi, ama vedere i film in lingua originale e pretende attori bravissimi (un mago nell’assoldarli e dirigerli è Guadagnino). Bisognerebbe poi mantenere quella magnifica idea che fa dei registi affermati i pigmalioni degli astri nascenti, per cui chi ha avuto incassi superiori a un tetto stabilito, può destinare una parte di quei guadagni nel finanziamento di un nuovo progetto. In fin dei conti, è sempre questione di avere produttori con buon naso, senza volontà eccessivamente dirigiste, che ascoltino le istanze dei registi, ma abbiano dita come quelle di Edward Mani di forbice.
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Cristina Battocletti