La sagoma dell’omino qui accanto con il bastone e lo zaino è l’autoritratto di Bobi Bazlen – fondatore assieme a Luciano Foà dell’Adelphi – che si intrufola nei disegni prodotti durante gli anni dell’analisi con Ernst Bernhard a Roma dal 1944 al 1950. Cento tavole scelte tra le 193 in una mostra curata da Anna Foà e Marco Sodano di Acquario Editore, nella sala Fontana al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Bazlen fu uno dei primi a credere nella psicoanalisi e a sottoporvisi a Trieste, dove nacque nel 1902, da un allievo di Freud, Edoardo Weiss. L’ho scoperto da un carteggio ritrovato nell’archivio dell’università di Trieste, mentre cercavo materiale per Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste (La nave di Teseo, 2017). La lettera è datata 1929: «Carissima Gerti, La Duška (fidanzata di Bazlen n.d.r.), quest’oca viene a raccontarmi di averle scritto che io mi sto sottoponendo a psicoanalisi. È vero… Esiste un esplicito divieto di parlarne durante la cura». Bobi era uno dei pochi a mantenere la segretezza sulla terapia e, anzi, al caffè Garibaldi dove si trovava con gli altri intellettuali, dava segni di scetticismo quando Saba analizzava ad alta voce i propri sogni, Voghera (che poi scrisse un meraviglioso libro, Gli anni della psicoanalisi, Studio Tesi, 1980) provava a dissertare sui testi di Freud in lingua originale che gli aveva prestato Bazlen e Svevo scrutava apparentemente il vuoto. In verità le antenne lunghe dello scrittore triestino avevano anticipato il rovello dell’uomo novecentesco nei suoi romanzi rivoluzionari per lingua e contenuti. Bazlen li aveva promossi quando nessuno dava loro credito, imponendo a Montale di recensirli nel 1925, bruciando Valery Larbaud che uscì su «Navire d’Argent» nel 1926. Di fatto Svevo fu la prima scoperta “psicoanalitica” di Bazlen, che tentò già durante la guerra di realizzare una collana di studi psicoanalitici nella Nei di Olivetti, ma ci riuscì con Astrolabio nel 1947 con Psiche e coscienza, firmata da Ernst Bernhard e decisa assieme a Bazlen. Dell’esperienza freudiana triestina a Bazlen rimase una sorta di ricordo doloroso, forse anche perché Weiss gli impose l’allontanamento forzato dalla possessiva madre Lina, proibendogli perfino di andare al capezzale della donna. Jung era molto più vicino alla tensione mistica e contemplativa bazleniana, al suo desiderio di far quadrare le coincidenze che annotava su un quaderno nero.
Divenne uno dei primi pazienti di Bernhard e indirizzò alle sue cure Cristina Campo, Bianca Garufi, Angela Zucconi. Bernhard chiese a Bazlen di analizzare i suoi sogni in un linguaggio che non gli fosse familiare. Bobi cominciò allora a realizzare tavole a china, matita e acquerello in cui compaiono forbici, croci, isole nel mare, pesci-sega, scheletri di alberi spogli, fiamme, funghi, falli, cilindri, sigarette, libri e simboli religiosi molto ricorrenti.
Si sentiva perseguitato dalle religioni: era stato battezzato cristiano evangelico, come il padre che morì quando lui aveva un anno, ma su di lui gravava la preponderanza della cultura ebraica materna e degli amici dei caffè. Tutto questo produsse in lui un desiderio di misticismo orientale (si diceva taoista), che riversò nell’Adelphi assieme ai demoni della Mitteleuropa, i filosofi trascurati e le vite esemplari di religiosi. Come facesse l’inconscio a trasformarsi in raffinatissimi schizzi e Mandala per me è stato a lungo un mistero, risolto da Zoja: la terapia non richiedeva la realizzazione di getto. Vedere questi disegni, estratti da spartane cartelle casalinghe, esplodere ora sui muri solenni del Palazzo delle Esposizioni di Roma è stato per me un colpo di commozione. E immagino anche per La Ferla, Riboli, Ricca, De Savorgnani che hanno indagato il “fenomeno Bazlen”. Ma Bobi, si sa, è un diesel e una continua sorpresa.
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Bobi Bazlen.
I disegni dell’analisi
Roma , Palazzo delle Esposizioni
Fino al 28 gennaio 2024