Vincitore del premio per la sceneggiatura a Venezia: il dittatore ritratto come un immortale malvagio.
Sulle conseguenze del suo regime ragiona anche il film di Guzmán, ora nelle sale
Il Cile è pieno di fantasmi che vagano da quando, l’11 settembre 1973, un golpe guidato da Augusto Pinochet rovesciò il governo democraticaticamente eletto di Salvador Allende. Le ferite non sono state sanate, anzi, macerano, e Pinochet – assieme al “sistema”, gli imprenditori e i militari che si sono arricchiti grazie alla sua dittatura –, continua a eternarsi nel presente attraverso una sempre crescente disuguaglianza sociale, sommata alla frustrazione della mancata giustizia nei confronti dei 40mila desaparecidos, di cui solo per duemila è stata accertata la morte.
Ce lo ricordano due film, molto diversi tra loro. Il primo, El Conde di Pablo Larraín, appena passato alla Mostra del cinema di Venezia e ora su Netflix, e il secondo, un documentario di Patricio Guzmán, Cile – Il mio Paese immaginario, nelle sale con Zalab, I Wonder e il patrocinio dell’Ambasciata del Cile in Italia, insieme ad altri quattro film del “grande vecchio” del cinema cileno: Salvador Allende, Nostalgia della luce, La memoria dell’acqua, La Cordigliera dei sogni. Quello di Guzmán è un documentario che racconta la rivolta dell’ottobre 2019 a Santiago, quando viene alzato il prezzo del biglietto della metropolitana. È una scintilla che fa scattare una rivoluzione inaspettata nella capitale e poi in tutto il Paese, al culmine di una situazione di disagio economico e sociale sempre più esteso. Guzmán stesso spiega all’inizio del film di come fosse stato Allende a suggerirgli di essere sempre presente prima dell’accensione della fiamma di una rivoluzione. Così il regista – che fu uno dei 600mila arrestati, concentrato all’Estadio Nacional – è lì tra i primi rivoltosi che scavalcano i tornelli, seguendo la protesta attraverso la voce delle donne, che fomentano le fila del dissenso. Il documentario ha una luce finale, che guarda all’avvio di una Costituente e alla promessa di un welfare più equo da parte del nuovo presidente Gabriel Boric.
El Conde è tutt’altra storia. È una black comedy surreale che però centra gli stessi temi di Guzmán. Sul tappeto di una marcetta militare Larraín inizia guardando dall’alto il salotto délabré in una casa immersa nella gelida punta meridionale del Paese, dove vive un vampiro, El Conde.
Il bianco e nero – coerente ai 250 anni del suo protagonista – ci presenta piccoli oggetti, decrepiti: statuette di Napoleone e di soldati nazisti. Ha deciso di morire, il vampiro, smettendo di bere il sangue delle vittime, anche se una voce fuori campo continua nostalgicamente a ricordare i suoi gusti. Il sangue britannico su tutti, con quella nota di pelle vichinga e l’aborrito sudamericano, acre, dall’aroma canino e dal bouquet plebeo. Ha una lingua formidabile El Conde – non a caso ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura a Venezia – nel suo essere horror farsesco, magniloquente, esagerato e funambolico, proprio come l’assalto alla Moneda del ’73, avvenuto con un attacco da terra e bombardamenti aerei per eliminare un solo uomo. El Conde – ci racconta sempre la voce fuori campo, la cui identità aggiunge un fantasioso tassello alla storia – nasce secoli addietro in Francia come Claude Pinoche, soldato di Luigi XVI, che diserta vigliaccamente non appena viene ghigliottinato il re, rimanendo però antirivoluzionario in eterno. Condizione che esercita combattendo le rivolte di Haiti, Russia e Algeria, coltivando la sua natura opportunista e famelica. Stanco di essere un semplice soldato, sceglie una patria di contadini senza padri, il Cile, e si trasforma nel generale Augusto Pinochet Ugarte, che in privato chiede di essere chiamato Conte (ecco il titolo). Il resto lo apprendiamo dalla Storia: la leggenda di un Cile guidato verso la prosperità e la modernità, che tiene lontano i bollori bolscevichi, sulla pelle delle vittime di crimini impuniti.
Larraín torna alla sua originaria cifra politica, baciata da una mano originalissima, come per Tony Manero (2008), Post mortem (2010), No – I giorni dell’arcobaleno (2012), dopo le fallimentari esperienze hollywoodiane sulle bio di Jackie Kennedy e della principessa Diana. In più aggiunge una nota filosofica sul fascino irresistibile (ed ereditario) del Male e dell’oltranzismo religioso. Con la macchina da presa sempre mobile, spinta sui personaggi in primi e primissimi piani, carrellate estrose, Larraín fa in modo che ogni immagine corrisponda al suo significato.
Chi scrive ha rivisto il film e fa ammenda della critica di narcisismo attribuita in precedenza, con cui l’aveva un poco penalizzato nella furia della cronaca leonina, domenica scorsa. A volte El Conde sfodera una violenza compiaciuta, concitata, senza pietà. Forse in qualche momento è insopportabile, ma è forse sopportabile che Pinochet l’abbia fatta franca?
4 stelle su 5
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Pablo Larraín
El Conde
Netflix