Berlinale ’73: i film italiani tra salti visionari e lucciole perdute

Certa parte della critica, soprattutto straniera, è stata feroce con Disco boy di Giacomo Abbruzzese, l’unico film italiano in concorso alla Berlinale. Eppure, anche se il film ha indubbiamente qualche dissonanza tra la prima e la seconda parte, è una pellicola ruvida e coinvolgente, con i crismi del cinema che piace ai giovani. Disco boy surfa infatti tra il supereroico, la favola, il fantasy e il noir e si poggia molto sulle spalle del bravo Franz Rogowski, credibile ragazzo bielorusso che entra nella Legione straniera in Francia e poi capitola psicologicamente davanti ai ribelli di una Nigeria devastata.  Rogowski interpreta molto bene l’emarginazione dei sans-papier, ma il film ha qualcosa di vero di per sé, tra salti visionari, balli sciamanici e lotte riprese con la termocamera ad infrarossi, tenendo assieme temi cari alle nuove generazioni, come l’ambiente, la sua devastazione e la responsabilità occidentale nei confronti del Terzo Mondo.
L’ultima notte d’amore, alla Berlinale Special Gala, invece, ha come atout solo Favino, che però sembra essere rimasto sul set di Nostalgia di Martone, visto che parla come un italiano che vive da troppo tempo all’estero. Andrea Di Stefano, che ha anche scritto il film, mette assieme una serie di luoghi comuni macroscopici: la mafia cinese e l’inciucio con la ’ndrangheta in un asse riso alla cantonese-’nduja che ha pari solo nell’iconico assemblaggio pizza-mandolino per rappresentare l’Italia. Ci aggiunge anche la polizia corrotta e il manuale dello stereotipo è compiuto.
In concorso in Encounters, la sezione più sperimentale del festival, il film documentario Le mura di Bergamo di Stefano Savona sulla pandemia. Dal regista – di cui avevamo apprezzato La strada dei Samouni (2018) – ci si aspettava una visione non scontata sulla tragedia del Covid, che Savona ha vinto. Attraverso alcuni medici, pazienti, volontari, protagonisti della strage in una delle città più colpite dal virus, il regista siciliano mette in atto lo stato di elaborazione del lutto e del trauma. La storia più originale, a mio avviso, è quella della manager di un’azienda di pompe funebri con il padre ammalato di Covid. L’immagine della figlia di lei che corre tra le bare per seguire un uccellino che si è infilato nel magazzino, restituisce l’anomalia della rimozione del concetto di morte nella nostra società. Corretto e un poco didascalico, infine, Le proprietà dei metalli di Antonio Bigini, ficcato in una sezione laterale, Generation-Kplus. Ma il film ha il pregio di ragionare sulla “scomparsa delle lucciole”, per dirla con Pasolini, ovvero sull’abbandono delle radici contadine del nostro Paese per abbracciare il consumismo. Lo fa attraverso la storia romanzata di un minigeller, uno dei bambini che alla fine degli anni Settanta era in grado di piegare metalli al solo tocco. Studiato da professori universitari, il fenomeno non è mai stato spiegato.