Scorrendo le immagini del documentario Infinito. L’Universo di Luigi Ghirri, scritto e diretto da Matteo Parisini (su SKY ARTE, su Now TV esu Sky on demand), viene il dubbio che a far esplodere il senso del fantastico nell’uomo che cambiò la fotografia negli Anni Settanta siano stati due elementi di costrizione: la professione da geometra, che gli dava da vivere, e la pianura padana, dove nacque il 5 gennaio di 80 anni fa.
Quando oramai si doveva dividere tra i vernissage delle sue mostre in tutto il mondo, Ghirri dovette riconoscere che il lavoro gli aveva insegnato molto perché «il geometra misura gli spazi esterni come un fotografo». Nel documentario lo spiega la voce di Stefano Accorsi che legge alcuni scritti dell’artista di Fellegara di Scandiano, intrecciati alle testimonianze di critici, colleghi e familiari, uniti da un comune denominatore: il profondo affetto per Ghirri. E l’intimità è il maggior pregio di questo documentario, per molti versi didascalico, che però mette a punto il segno di Ghirri: la suggestione, l’evocazione del tutto soggettiva e che provoca in chi la guarda un sentimento privato, riservato e profondo.
La fotografia non come testimonianza, ma come varco per l’evocazione. Lo spiegano i suoi compagni di viaggio, Franco Guerzoni, di cui Ghirri fotografava le prime installazioni, Davide Benati e lo storico stampatore, Arrigo Ghi, che all’inizio si chiedeva assieme alla moglie «che razza di strane foto facesse Ghirri». Non lo capivano, ma entrambi le trovavano bellissime. I rilievi dello storico dell’arte, Arturo Carlo Quintavalle, e del fotografo, Gianni Leone, sono tecnici ed estetici sì, ma soprattutto hanno a che fare con l’istinto primordiale dell’uomo verso la poesia che ci riporta all’infanzia. E, nello stesso tempo, l’abilità a mostrare contraddizioni e contrasti, a registrare la surrealtà senza intervenire a modificare la scena. Lo assicura il musicista Massimo Zamboni, ex CCCP, gruppo punk per cui Ghirri realizzò la copertina dell’album Epica Etica Etnica Pathos nel 1990. Al massimo “Luigi” fece accostare o aprire una finestra all’amatissima compagna Paola e accendere una lampadina «come se fosse l’uovo di Piero della Francesca», ma stavolta in una cascina padana. Sapeva contaminare Ghirri, per questo lavorava con l’amico Lucio Dalla, ritratto più volte (nel documentario sullo sfondo della Puglia con due cani), Gianni Morandi e Luca Carboni.