La bulimia di voler mostrare troppo

Venezia 79. Molta America, per lo più psicotica, al Lido: il pop Baumbach, la storia incredibile della fotografa Nan Goldin, i cannibali di Guadagnino. Per la gran parte dei film ci sarebbero volute le forbici: anche per il bel «Bardo» di Iñárritu. Gli applausi più forti per «Argentina, 1985»
Si dice che le serie abbiano liberato il cinema, lasciando al piccolo schermo gabbie soprattutto temporali. L’effetto diventa deleterio nel caso in cui un colosso come Netflix (di cui in concorso a Venezia quest’anno ci sono quattro film), per darsi un patentino di autorialità sovvenziona i maestri con larghezza di mezzi e senza condizioni. Così accade che ottimi registi come Alejandro González Iñárritu, in competizione con Bardo (o falsa crónica de unas cuantas verdades), si dimentichino le forbici a detrimento dell’opera. Ed era già successo l’anno scorso con Il potere del cane di Jane Campion.
Iñárritu fa parte di quella schiera di messicani talentuosissimi (come Alfonso Cuarón, Guillermo del Toro, Carlos Reygadas), il cui film più brutto è comunque un buon film. L’inizio del Bardo è folgorante e irriverente: un tentativo di volo e un nascituro che decide di tornare nel ventre materno in un susseguirsi di colpi di scena che oscillano tra realismo magico, onirismo felliniano, zingarate alla Kusturica e surrealismo buñueliano. Pian piano viene in luce la saga (piuttosto autobiografica) di Silverio Gama (stupendo Daniel Giménez Cacho), reporter con la schiena dritta, primo messicano a ottenere dagli Stati Uniti un prestigioso premio giornalistico. Il ritorno nel suo Paese (vive in Usa) per i festeggiamenti, le piccole invidie dei vecchi amici, la nostalgia e l’impossibilità di aderire al passato fanno ricordare un altro bellissimo film sudamericano, Il cittadino illustre (2016), di Mariano Cohn (in giuria alla Mostra) e Gastón Duprat, con il plus della maestria registica di Iñárritu. Sul tavolo i temi cari: il confronto figli-genitori, il tormento interiore, seguito con piano sequenze molto birdmaniane, l’ingiustizia sociale e vicende nemmeno troppo paradossali (Amazon compra la Bassa California), in una giostra che deve avere come guida proprio il titolo, ovvero il Bardo, lo stato di transizione tra la morte e la rinascita. Purtroppo Iñárritu sfora insistendo sulla (sacrosanta) memoria del genocidio dei nativi da parte dei conquistatori spagnoli e sul tema dei migranti messicani (ne aveva fatto un’impressionante installazione a Cannes, Carne y arena) con il desiderio di dire troppo, che è stranamente dei principianti. Stessa critica vale per un altro ambizioso film, Tár, di Todd Field con Cate Blanchett direttore d’orchestra. Per nulla facile trasmettere per immagini l’interazione con gli strumentisti e l’interpretazione di una composizione, il tutto in ambiente LGBT con accuse di molestie sessuali pendenti. Quando Cate-Lydia si trova a mangiar polvere per troppa hybris il regista la fa scendere in un girone infernale poco credibile e l’ottima Cate recita con un effetto déjà vu del Bob Dylan in I’m not there.
Baumbach in White noise corre sui binari rodati delle implosioni familiari (The Meyerowitz stories, 2017, Storia di un matrimonio, 2019) sulle righe dell’omonimo libro di Don De Lillo (Einaudi, 2014). Si affida alla svagatezza insicura di Greta Gerwig (Frances Ha, 2012) e all’ombrosa e tenera corporeità di Adam Driver. Così si snodano le incongruenze americane sui temi del consumismo, della paranoia complottista e della rimozione della morte nella patria del sogno alla portata di tutti. Il crepaccio di una famiglia allargata, su cui incombe una sciagura ambientale, fila negli anni Ottanta in soffice ottica pop con scrittura brillante, su cui a volte Baumbach calca troppo la mano (il confronto musical tra Driver, professore esperto di Hitler, e un collega esperto di Elvis Presley stucca). Magnifico il finale, sarebbe dovuto arrivare prima.
Forse troppa America in un festival che dovrebbe invece mostrare il mondo, e per lo più psicotica. Così è quella di Bones and all di Luca Guadagnino: due ragazzi cannibali che tentano di darsi un codice in mezzo alla realtà già pazza, con l’aggravio del loro istinto sanguinario. Un’emarginazione all’ennesima potenza, che si ciba di resti umani, deve essere intesa come pansessualità freudiana o come deviazione del vampirismo Twilight? Guadagnino gira benissimo, sempre meglio, sa guardare avanti e non solo perché sceglie come attore un idolo dei teen come Timothée Chalamet. Ma la risposta la daranno le frotte di ragazzi, accorsi al Lido alle 8.30 di mattina per Guadagnino e che sembravano catapultati da un locale cool di Berlino o di New York.
All the beauty and the bloodshed di Laura Poitras è ipnotico per tre quarti, quando ripercorre con la voce e le immagini di Nan Goldin la vita affilata d’arte della fotografa, le sue dipendenze, i rifiuti, gli amori e le Comuni. Il tutto è imperniato su un movimento, Pain (dolore), che fa una giusta battaglia politica contro una nota casa farmaceutica, ma l’aspetto biografico è molto più interessante di quello barricadero.
Il più lungo e meritato applauso è andato però ieri mattina ad Argentina, 1985 di Santiago Mitre con un grande Ricardo Darín (Coppa Volpi?) nei panni del pubblico ministero Julio Strassera, incaricato di giudicare Videla per i delitti commessi durante la sua dittatura. Storia di ineccepibile eroismo, scritta bene, ma vecchia nella forma. Così come il troppo statico Un couple del decano e maestro del documentario Frederick Wiseman.
Il monologo di Sophia Tolstoj (Nathalie Boutefeu) sul suo tormentato rapporto con il marito non avrebbe dovuto stare in concorso. Sbiadito Monica di Andrea Pallaoro: ancora America in cui mette sul piatto il ritorno a casa di un figlio, diventato donna, con una madre terminale. Troppa carne al fuoco: non bastano disseminati silenzi e occhiate dolorose a farne un capolavoro. Così come la prostituta nigeriana di Princess nella sua magnifica potenza non è sufficiente a reggere un intreccio di finzioni probabilmente assai simili alla realtà. Il regista, Roberto De Paolis, aggiunge elementi di tribalità inutile (l’arrostimento di un animale selvatico) e un falso perdonismo per il buon selvaggio. Quando il cinema italiano mostrerà un Paese un poco meno estremo, magari di immigrati integrati e imborghesiti? Comunque a fine festival arriva Panahi (non lui in persona, che è agli arresti in Iran) e salverà tutto.
EastSideStories
Cristina Battocletti