Non esiste uno sguardo femminile nel cinema di oggi. Esiste piuttosto una sensibilità figlia dell’area geografica di provenienza o di incubazione creativa (gli States, il Sud America, la Francia, l’Est Europa). Il gender gap invece esiste anche nell’industria cinematografica e si nasconde nella filiera: le registe ancora scarseggiano nei festival e nelle programmazioni perché hanno avuto (finora, si spera) ridotto accesso alla produzione. Una lacuna che si tenta di colmare in gran fretta perché l’imperativo arriva proprio da Hollywood, dove c’è uno dei presidi #metoo più agguerriti. Un tratto comune si intravede però in tutte le registe, sia giovani che mature: quello di mettere al centro della storia e dello schermo una donna senza la necessità che sia una freak o una Giovanna d’Arco. O di restituire una situazione collettiva con uno sguardo plurale, combattivo e impegnato nell’attualità, alla Agnès Varda. Difficile capire se si tratti di una presa di posizione politica: forse è semplicemente urgenza di dire la propria su temi importanti.
Lo confermano tre film in uscita la prossima settimana, il 10 marzo, Radiograph of a family di Firouzeh Khosrovani, Be my voice di Nahid Persson e Parigi, tutto in una notte di Catherine Corsini. Radiograph of a family è un prezioso film di cucitura di diversi materiali visivi e sonori: found footage, pellicole d’archivio e due voci narranti, il padre e la madre della regista. I dialoghi, recitati da due attori, sono scritti dalla stessa Khosrovani. È una narrazione familiare e di un Paese, l’Iran, dall’era dello Scià alla Rivoluzione islamica, fino alla guerra Iran-Iraq, che ricorda il piglio poetico di uno dei più bei film documentari intimisti, Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi (2002). Radiograph of a family racconta la storia di uno studente di radiologia (ecco il titolo) iraniano fuori sede in Svizzera (il padre), che si fa raggiungere da una ragazza di Teheran (la madre).
La giovane si sente inadeguata alla vita europea di Ginevra e raggiunge il culmine del disagio quando un incidente sugli sci le causa una scoliosi permanente. Appena rimane incinta ottiene di ritornare in Iran, proprio mentre la sharia avvolge il suo Paese e la casa, come la scoliosi la sua spina dorsale. Per lei, però, il nuovo corso politico e religioso è una liberazione, quanto per il marito e la figlia si trasforma in un abbandono e in un bavaglio soffocante. Il tutto è reso metaforicamente attraverso il campo lungo di un soggiorno addobbato all’occidentale, poi sguarnito e riallestito alla persiana. Complementare, più “road movie” e altalenante nella resa, in linea con la forte personalità della sua protagonista, è Be my voice, al cui centro c’è Masih Alinejad, giornalista e attivista iraniana. Alinejad dagli Stati Uniti, dove vive sotto protezione, ogni giorno attraverso la radio e i social lancia la sua battaglia contro l’obbligo del velo. Un atto di disobbedienza che, praticato in patria, costa la prigione ai dissidenti e ai suoi followers (ne ha sei milioni). Lei stessa ci è finita per le sue opinioni da giornalista parlamentare, quando era a Teheran. A ritrarre la sua storia è un’altra connazionale in esilio in Svezia, Nahid Perrson, che mostra vigore e fragilità di Alinejad nella sua esuberanza spesso eccessiva, senza la quale probabilmente non avrebbe avuto la forza di opporsi al regime.
Parigi tutto in una notte è un buon film di fiction: ha un ritmo sostenuto per stare al passo con la difficile situazione sociale francese – gilet gialli compresi -, che Corsini vuole mettere in evidenza. La sceneggiatura è tesa e la regista visivamente dà il suo meglio durante le manifestazioni. Il tutto è sdrammatizzato dalla nevrosi di Valeria Bruni Tedeschi (Raf), fumettista bobo, che solo apparentemente è il fulcro della storia. Lo è, invece, la statuaria infermiera Kim, interpretata da Aïssatou Diallo Sagna (meritato premio César), che lavora in un ospedale anche nella realtà. Kim irradia una piramidale forza morale nella nuova discarica dei mali sociali: il pronto soccorso.
Khosrovani, Persson e Corsini, nate tra gli anni Cinquanta e Sessanta, portano avanti le stesse istanze delle registe che hanno vinto Cannes, Venezia e Berlino: Julia Ducournau (38 anni) con il psichedelico Titane, Audrey Diwan (42) con L’Événement, Carla Simón (35) con Alcarràs. Queste ultime hanno girato film diversissimi, parlando dell’oggi o di un futuro temibile. Alla Berlinale, appena conclusa, le donne in concorso e nel palmares erano molte di più del solito e di qualità. Benvenuta “normalità”.