Moriva il 27 ottobre 1990 il grande attore e regista cremonese. Comico e tragico, lo vollero tutti i grandi: da Risi a Bertolucci, da Ferreri a Monicelli
Sono passati trent’anni da quando Ugo Tognazzi morì, il 27 ottobre del 1990, nel sonno a Roma per un’emorragia cerebrale. Eppure, è indelebile nella nostra memoria la smorfia di sarcasmo e irrisione che caratterizzò la sua lunga e prolificissima carriera di attore. Classe 1922, lumbard di Cremona, Tognazzi fu uno dei pochi nordici, assieme a Walter Chiari, a imporsi nel Dopoguerra nel mondo romanocentrico della tivù e della Commedia all’italiana, che lo appaiava ad Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Marcello Mastroianni. Tognazzi si compiaceva di quelle origini e infilava, se poteva, qualche parola in dialetto nelle sue maschere tragiche o nelle performance da cabarettista, per cui aveva lasciato l’impiego da ragioniere nel salumificio Negroni. Figlio di assicuratore, per lui la recitazione era stata sempre un hobby da dopolavoro o una distrazione durante guerra, quando, richiamato alla leva, organizzava spettacoli di varietà per i commilitoni. E l’atmosfera da fureria, la caserma sono gli ambienti in cui si svolge il suo film d’esordio, diretto nel 1950 da Mario Mattoli, I cadetti di Guascogna. Il militarismo farsesco è la traccia anche de Il federale di Luciano Salce (1961) e Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli (1972).
Il cameratismo virile e spesso becero è poi la cifra di tante sue interpretazioni, come quella di Raffaello Mascetti nella trilogia di Amici miei, nei due episodi firmati da Mario Monicelli e poi Nanni Loy. Nobile decaduto, costretto a vivere nel sottoscala e mangiare a sbafo, alle spalle di Duilio Del Prete, Gastone Moschin, Philippe Noiret e Adolfo Celi, il conte di Tognazzi è un uomo medio vigliacco, come i tanti interpretati da Sordi, ma più sadicamente raffinato: se non ha riguardo a far morire di fame la famiglia, riesce a digiunare per orgoglio di casta.
Tognazzi aveva l’enorme coraggio delle genialità insicure che credono di essere inciampate in un mestiere per distrazione del destino. Così quando incontra Raimondo Vianello non esita, nel programma televisivo di enorme successo, Un due tre (dal 1954 al 1959 sulla Rai) a farsi beffe del capo dello Stato, Giovanni Gronchi, caduto per la sottrazione di una sedia davanti al presidente della Repubblica francese De Gaulle al teatro alla Scala. Per questo sketch la trasmissione fu cancellata, ma la carriera di Tognazzi, grandissimo lavoratore e professionista, non ebbe a risentirne. Lo vollero tutti i grandi registi italiani del suo tempo. Dino Risi fu uno dei primi a riconoscerne il talento (La marcia su Roma, 1962, I mostri, 1963, Straziami ma di baci saziami, 1968, In nome del popolo italiano, 1971, La stanza del vescovo, 1977 e Dagobert 1984). Ma la sua estesa filmografia è difficile da esaurire in poche righe. Tra i maestri che lo diressero, anche più volte, ci sono Pupi Avati, Alberto Bevilacqua, Luigi Comencini, Sergio Corbucci, Pietro Germi, Franco Giraldi, Ugo Gregoretti, Alberto Lattuada (Venga a prendere un caffè da noi, 1970), Carlo Lizzani (La vita agra, 1964), Francesco Laudadio, Camillo Mastrocinque, Pier Paolo Pasolini, Elio Petri (La proprietà non è un furto, 1973), Luciano Salce (La voglia matta, 1962); Ettore Scola (La terrazza, 1980), Steno, i fratelli Taviani, Lina Wertmüller, Luigi Zampa.
I registi sfruttarono la sua china provocatoria, affidandogli anche parti imbarazzanti – come quella del protagonista ne Il petomane (1983) di Pasquale Festa Campanile -, quando non sporcaccione, o macchiettistiche spinte. È il caso della trilogia de Il vizietto, parodia del mondo omosessuale, che oggi sarebbe giustamente osteggiata e marchiata come intollerabile. Il sodalizio con Ferreri, suo grande amico, finì poi per amplificare la venatura maschilista dei suoi personaggi, per cui le donne figurano per lo più come oggetto di piacere e di disturbo. Ne sono emblema Una storia moderna – L’ape regina (1963), in cui Tognazzi è un fuco, o Controsesso (1964), La donna scimmia (1964), Marcia nuziale (1966), L’harem (1967), L’udienza (1972), e Non toccare la donna bianca (1974). Discorso a parte vale per La grande abbuffata (1973), uno dei film più socialmente profetici e immarcescibili del secondo Novecento, in cui Ferreri lo scelse nel ruolo di cuoco (la cucina era un’ossessione di Tognazzi, che aveva scritto vari ricettari) e quindi di carnefice, visto che quattro uomini annoiati i decidono di uccidersi mangiando.
C’è stato chi, come Antonio Pietrangeli, lo ha prosciolto dalla gabbia del sessista, disegnandogli però addosso il profilo psicopatologico del geloso ne Il magnifico cornuto (1964). Si autodiresse in cinque film (Il mantenuto, 1961; Il fischio al naso, 1966; Sissignore, 1968; Cattivi pensieri, 1976; I viaggiatori della sera, 1979) e nella serie televisiva FBI – Francesco Bertolazzi investigatore (1970). Ma il ruolo in cui riuscì a restituire il suo lato buio e amaro fu La tragedia di un uomo ridicolo (1981) di Bernardo Bertolucci, con cui vinse la Palma d’oro per il migliore interprete a Cannes.
Tognazzi nei panni di un piccolo imprenditore, cui è stato rapito il figlio, è lo specchio del conflitto generazionale che sommoveva la società italiana, dell’impotenza di un piccolo borghese che reagisce con pragmatismo e autismo di fronte alla pazzia del terrorismo. Un argomento, quest’ultimo, di cui non ha avuto paura di burlarsi da irresistibile e fiero goliarda qual era, sempre con l’espressione di disgusto stampata in faccia. Nel 1979 accettò di far parte dello scherzo, architettato dal giornale satirico «Il Male», fingendo di essere il “grande vecchio” delle brigate rosse, rivendicando fieramente il «diritto alla cazzata».
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Cristina Battocletti