30 anni senza Sergio Leone: l’autore de «La trilogia del dollaro» e di «C’era una volta in America» nel libro-intervista di Noël Simsolo, che racconta l’uomo e il professionista

Prima cosa, via le donne dalle finestre; seconda, pensare sempre alla scena come fosse un quadro di Yves Tanguy o di Magritte; terza: orchestrare le musiche con le immagini, in perenne dialogo con il tempo e lo spazio; quarta, ritornare alla Commedia dell’Arte, guardando ai personaggi come maschere di Goldoni.
Su queste chiare regole di ingaggio, osservate scrupolosamente, Sergio Leone è diventato uno dei rinnovatori del cinema e non solo del western, che, a detta dello stesso regista, era già stato «inventato da Omero». A trent’anni dalla morte dell’autore romano, il 30 aprile 1989, a sessant’anni tondi, è un tuffo onirico leggere il libro-intervista, C’era una volta il cinema, pubblicato dal Saggiatore. È un dialogo raccolto da Noël Simsolo, amico di Leone, critico e studioso di storia del cinema, sceneggiatore e regista lui stesso. Grazie alla grande intimità con Leone, Simsolo offre una panoramica umana e professionale da cui emerge un uomo estremamente attaccato alla sua professione, pessimista, cortigiano con gli infidi, affettuoso solo con la famiglia e gli amici veri. Perché soprattutto di amicizia parlano i suoi spaghetti western, termine che per gli italiani aveva una connotazione dispregiativa e che invece per gli americani, che l’avevano inventato e che veneravano Leone, indicava solo le origini italiane del regista. Erano yankee del calibro di Howard Hawks, Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, Michael Cimino, Martin Scorsese, John Woo. O come John Ford, che gli spedì una sua foto con la dedica «To Sergio Leoni. With Admiration» e lui, che era cresciuto a pane e America, aesponeva come un cimelio sacrale, divertito dall’errore nel cognome. Leone ricambiava la loro stima, che nutriva in modo spassionato anche per John Cassavetes, John Huston e Charlie Chaplin, di cui amava soprattutto il perfetto equilibrio tra il registro drammatico e quello comico. Tra gli europei, ammirava Jean-Luc Godard e Jean Gabin, ma soprattutto Vittorio De Sica, con cui aveva lavorato (e per cui aveva fatto anche la comparsa in Ladri di biciclette, 1948) come implacabile assistente di regia. Lo era stato di tutti i più grandi italiani di allora (Mario Bonnard, Luigi Comencini, Steno) e di alcuni stranieri, come Orson Welles per un film incompiuto che sarebbe poi divenuto Rapporto confidenziale (1955) e Fred Zinnemann per La storia di una monaca (1959). Imparò il mestiere dal padre, prima attore e poi regista di successo, che finì nella lista nera del ministro Bottai per aver rifiutato una sceneggiatura del Duce. Sergio Leone procedeva con sguardo documentario, assorbito dal Neorealismo, nel tentativo di rendere fatti e scene più verosimiglianti possibili, soprattutto nella manifattura di cose e oggetti (era un esteta e un collezionista), nonostante i budget inizialmente molto ridotti. Iniziò con un peplum, genere che aveva maneggiato lavorando con Robert Wise per Elena di Troia (1956), William Wyler per Ben-Hur (1959), Robert Aldrich per Sodoma e Gomorra (1962). Si intitolava Il colosso di Rodi (1961) e fu un successo di pubblico, un fiasco per la critica. Si avvicinò al western, ammaliato dalla bellezza de I sette Samurai (1954) di Akira Kurosawa, che continuò ad amare anche quando il regista giapponese lo ridusse al verde con l’accusa di plagio. Da cinefilo, soffrì molto della sufficienza con cui la critica aveva liquidato la sua Trilogia del dollaro, a partire da Per un pugno di dollari (1964) – che inizialmente dovette firmare con uno pseudonimo per via della moda esterofila imperante -, Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966).


Le cose cambiarono con la Trilogia del tempo, composta da C’era una volta il West (1968), Giù la testa (1971), fino all’incoronazione di C’era una volta in America (1984), quando aveva tutti ai suoi piedi, a partire da De Niro, James Woods, Joe Pesci. Simsolo batte con Leone molti aspetti della sua carriera e della vita personale, senza edulcorare nulla del carattere fumino del regista, che litigò con i produttori fino a creare la sua casa di produzione. Era inflessibile e per ciò sapeva imporre una disciplina ferrea anche dagli attori più riottosi, come Robert De Niro, Klaus Kinski e Rod Steiger.

Leone era l’arcangelo Gabriele, che aleggia in tutta la sua filmografia, con poncho e pallottola in canna; l’indomabile, che riporta la giustizia nel mondo con una violenza feroce, unita all’ironia di dialoghi scarni, entrati nella mitologia delle citazioni. Leone era il giovane Noodles, il delinquentello che avrebbe voluto rappresentare in Viale Glorioso, sceneggiatura che scrisse per un film mai realizzato: capì, dopo aver visto I vitelloni (1953), che Fellini lo aveva battuto sul suo terreno con un risultato irraggiungibile. Era un anarchico, allergico alla spacconeria fascista, deluso dal socialismo. Prendeva il cinema come un modo per liberarsi dai fantasmi e scatenarne altri, facendoli correre già dai titoli di testa nelle sagome dei suoi attori: Clint Eastwood su tutti, Gian Maria Volonté, Lee Van Cleef, Eli Wallach, Henry Fonda, Jason Robards, Charles Bronson, e le poche interpreti femminili, come Claudia Cardinale e Marianne Koch. Tra quei fumettoni si avvistano anche i nomi di altri fedeli costruttori delle sue pellicole: Ennio Morricone, il cui sodalizio consacrò entrambi nel pantheon dei mostri sacri, per le musiche; Tonino Delli Colli per la fotografia, Carlo Simi per le scenografie. Ovunque l’impronta del fanciullino, frammentato tra passato e presente, in un gomitolo di flashback e tempi dilatati. Leone è qualcosa di più di un cineasta per molte generazioni, che, sentendo in lontananza un fischio, avvertono già la terra rossa sotto i piedi e attendono il primo sparo.
East Side Story
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C’era una volta il cinema Sergio Leone, a cura di Noël SimsoloIl Saggiatore, Milano, pagg.225, € 24
Cristina Battocletti