Wes Denetclaw (James Coleman) non guarda mai l’obiettivo, sbatte gli occhi e poi solleva la lattina di birra. Un sorso e torna con lo sguardo a terra. Sono le sue prime ore di “lavoro” da alcolista ai margini della riserva indiana di Prairie Wolf, dove Sally (Florence Klein) gestisce con i figli una baracca nel nulla, un cubo di legno carico di casse di birra. Non si possono introdurre alcolici nella riserva, così ogni giorno la vecchia Mary Denetclaw (Wilma Pelly) porta il suo ragazzo di mezz’età a “onorare” la tossicodipendenza quotidiana assieme a un pugno di altri indiani.La reazione dello spettatore verso le prime immagini di Land di Babak Jalali è pena, senso di impotenza, fastidio verso una madre che condanna il figlio a una lenta e sicura agonia. Poi c’è l’interrogativo che circonda Sally, cowgirl dai modi bruschi, vestita interamente di jeans, l’incarnato bianchissimo in risalto contro quello dei pellerossa, per cui confeziona ogni giorno il pranzo al sacco. Li nutre per vendere più a lungo il proprio veleno? O ne ha pena e li accudisce? La sera Mary va a riprendere Wes per riportarlo nella loro casa isolata in cui vivono anche il fratello maggiore di Wes, Raymond (Rod Rondeaux), sua moglie Bettie (Georgina Lightning) con il loro figlio.
C’è qualcosa di oscuro nelle immagini lente e poetiche di Jalali, regista di origini iraniane, cresciuto a Londra: è il senso della verità insito nella perdita. Per svelarlo il regista decide di usare il cinema nella sua forza endemica, quella delle sole immagini, senza fare ricorso a voci fuori campo o a dialoghi esplicativi.Che cosa sia la conquista ce lo suggerisce il salotto dei Denetclaw, un pugno di assi di legno in mezzo al deserto, in cui nelle ore serali entra la voce straniante di un film americano. Che cosa sia il razzismo ce lo mostrano le ossa rotte di Wes per aver raccontato una favola nera in cui si narra di come gli indiani siano usati come materiale per costruire dei burattini. Che cosa sia il dolore puro ce lo racconta il singulto di Sally, quando dalla finestra della cucina vede un auto percorrere la serpentina polverosa e solitaria che conduce alla loro casa. Che sia successo qualche cosa di irreparabile ce lo spiega l’acqua, bene preziosissimo, che esce copioso dal rubinetto dimenticato aperto da Sally. Che sia coinvolto il cognato più giovane, Floyd, in missione in Afghanistan, ce lo rivela il saluto cerimonioso dei due ufficiali in uniforme nel presentarsi a Sally.Ci sono poche vie di sopravvivenza per un indiano della riserva, sembra suggerirci Jalali: vestire con pericolo una divisa, vivere decentemente di contrabbando, sopravvivere faticando nei possedimenti dei bianchi, o buttare la vita in alcol. Raymond è uno dei pochi che sono riusciti a uscirne con fatica e una tassa sulla salute, lo si capisce dalle punture che si infligge ogni giorno nella pancia. Il regista, anche sceneggiatore – che si è fatto notare nel 2005 con il corto Heydar, an afghan in Teheran, candidato ai BAFTA, nel 2009 con Frontier blues, premiato a Seattle e all’Andrei Tarkowski film festival, e nel 2016 con Radio dreams, vittorioso a Rotterdam – ha spiegato di aver tratto ispirazione da un articolo del «Guardian» che si concentrava sulla riserva di Pine Ridge, nel Dakota del Sud, dove morti precoci, suicidi, invalidità al lavoro dei giovani pellerossa disegnavano i contorni più di un’epidemia che di una questione sociale. Veniva fotografata la volontà esiziale di un popolo, cui è stata tolta l’identità e la possibilità di tramandare lingua e tradizioni proprie, ingabbiate nell’“acchiappasogni” di perline e piume, simbolo di sapienza diventato un souvenir da bancarella. Il regista ha trascorso settimane e poi mesi nelle riserve, filtrando le leggi non scritte di comportamento tra le due comunità dei nativi e dei discendenti dei colonizzatori europei. Si è posto di fronte alla difficoltà di un rapporto deteriorato dalla violenta conquista perpetrata e subita, dallo scorrere brutale del sangue da ambo le parti. Il tutto complicato dall’orgoglio, dalla chiusura e dall’incomunicabilità, dalle esplosioni di intolleranza e razzismo, seguite da vendette asperrime e tribali, in cui la polizia è tenuta fuori. In base a ciò che ha visto e capito ha cominciato a scrivere Land, diario specialissimo di una comunità vinta, ma che vende cara la sua dignità e la fierezza. Si fa colpire e aspetta la morte con gli occhi fissi in quelli del nemico, impartendo una sottile lezione morale: chi ha causato la rovina di una civiltà deve assistere alla sua dolorissima fine. Ma c’è sempre il matto o lo scemo del villaggio che ha la chiave per riavviare la giustizia. Qui è una ragazzina bianca, un po’ stordita, che gira con una bicicletta e un paio di cuffie rosa in testa: ha il vizio di ascoltare storie e musiche degli indiani e di dare loro dei consigli, senza ricordare che il colore della sua pelle le suggerirebbe di stare da un’altra parte.
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