Olivier Assayas è un animale cinematografico irregolare: nato pittore, cresciuto graphic designer, editor dei «Cahier du cinema» dal 1980 al 1985, ha firmato nel 2008 un documentario, Ore d’estate, che il «New York Times» ha definito “il miglior film del 21esimo secolo (finora)”. Ha debuttato nel 1986 con una pellicola di finzione, Il disordine, con cui ha incassato il premio della Settimana della Critica alla Mostra del cinema di Venezia. Gira film sempre diversi, covando un sempiterno omaggio all’impeto ribellistico giovanile, che ha vissuto sulla sua pelle, e alla musica, che sia protagonista del copione (per esempio, nelle traversie di una band) o colonna sonora, di fatto impasto unico con la trama. Ha un’attenzione clinica al rapporto tra generazioni e un passo quasi documentaristico nel vivisezionare un evento, emotivo, storico o di cronaca, individuandone le conseguenze su persone e ambienti. È passato dal delitto del Disordine, ai moti sessantottini di Qualcosa nell’aria (2012), al quadro psicoanalitico di Sils Maria (2014), al sovrannaturale (abbastanza incomprensibile) di Personal shopper (2016), all’ultimo Gioco delle coppie, titolo assai deviante ed erotizzante, che sarà nelle sale il prossimo 3 gennaio.
Assayas più che sulla convulsa vita sessuale dei protagonisti, ragiona sul complesso e nebuloso impatto inarrestabile sulle nostre vite dell’era digitale, attraverso la figura di un affascinante editore di tradizione, Alain (Guillaume Canet), ironico, arguto, raffinato, controllato (forse il personaggio più autobiografico); sua moglie, Selena (Juliette Binoche), attrice, colta, navigata, passata dalle pièce teatrali impegnate al ruolo di poliziotta in una serie televisiva popolare; uno scrittore di successo, Léonard (Vincent Macaigne), intellò vigliacco ed egoista, pauperista, parassitario, che traspone le sue esperienze personali in romanzi, senza curarsi di chi ne è coinvolto; Valérie (Nora Hamzawi), fidanzata di Léonard, portaborse di un politico travolto dai social media e dal disprezzo della gente, nonostante l’autenticità dei suoi intenti; e, infine, Laure (Christa Théret), rampante media editor, bisessuale, aggressiva, doppiogiochista. Ma non più né meno degli altri protagonisti. Editori, scrittori, attori, politici sono tutti insieme sul vascello del cambiamento e cercano di raccapezzarsi o di cavalcarne l’onda.«La digitalizzazione ha trasformato il mondo, distruggendo molte cose senza creare alternative soddisfacenti. L’uso di internet ha trasformato la nostra vita e il lavoro. È una rivoluzione che ci è piombata addosso senza essere pensata, per questo la gente critica così aspramente il sistema politico, che oltre a non avere risposte, non ha nemmeno una visione chiara del fenomeno». La sceneggiatura – che avrebbe meritato un premio a Venezia, almeno quanto l’interpretazione di Binoche e Macaigne -, firmata dallo stesso regista, lucida e tesa, suona come un’accusa contro l’ipocrisia della società borghese, satolla e distante dalla realtà, ma forse almeno consapevole dei propri limiti. «Non ho scelto un bersaglio, ho solo cercato di dare voce ai personaggi coinvolti nell’evoluzione del mondo dell’editoria. Ma è uno solo degli sfondi possibili: la digitalizzazione attraversa ogni aspetto della società».La categoria più esposta è quella della stampa: «In questo settore la situazione è pessima, in Francia come in Europa. Io sono sempre stato attaccato alla carta, ma ormai anche le mie abitudini sono cambiate. La mattina mi informo su internet e quando vado in edicola mi rendo conto che ci sono notizie vecchie di ventiquattr’ore. Il New York Times, per esempio, lo compro in versione digitale perché è molto più comodo». Nel film un blogger sostiene il ruolo liberatore della rete nei confronti della scrittura, che per altri è semplicemente il mezzo per dare voce a un flusso di coscienza. «In internet vi è un vera proliferazione della parola, che però non aiuta la riflessione se non c’è un dialogo costruttivo, e ho l’impressione che in rete vi sia una sovrabbondanza di monologhi». Alain è molto ironico con la vena di autofiction di Leonard, che a sua volta critica Alain perché vende libri che rimestano sullo scandalo politico. «Non parteggio per l’uno o per l’altro. Sono solo due rappresentanti della società contemporanea; mi sono basato su personaggi reali, perché la finzione non può esistere di fatto senza autobiografismo, anche quando rimane nascosto. Truffaut aspettava i film di certi registi per avere informazioni su amicizie e conoscenze in comune. Credo che la finzione sia più autentica di un documentario, perché riesce a scandagliare la complessità del mondo e dell’individuo». Quindi ne Il gioco delle coppie c’è anche qualcosa di Assayas. «Tutto, ma in modo frammentario. Sono stato spettatore e attore di tutti i dialoghi del film, che ho finito di montare all’inizio dell’estate scorsa. Nei mesi successivi ho affrontato conversazioni molto simili a quelle descritte nel film con gli amici, che potrebbero a buon diritto pensare di essere finiti sugli schermi».Nel film c’è chi teorizza che i tweet siano una nuova forma di haiku. «Non sono un ideologo delle nuove tecnologie. Anzi, sono piuttosto conservatore, ma ho sempre l’impressione che la poesia si riformuli con nuovi mezzi. Trovo che il lavoro di David Hockney con i telefonini e le fotocopie sia di una bellezza moderna straordinaria. Quando le cose cambiano c’è qualcosa nell’arte che può legittimamente cambiare». In un dibattito sul futuro dell’editoria uno spettatore interviene sostenendo che la digitalizzazione migliora la democrazia, ma Alain è piuttosto scettico. «Nemmeno l’America è riuscita a fare una riflessione seria sul senso della democrazia post televisiva e post digitale che stiamo sperimentando. La democrazia così com’è non funziona e la spia ne è il fatto che la percezione della realtà viene definita da mezzi di comunicazione che non sono controllati in modo saggio. La democrazia è cosa importantissima e preziosa, ma è stata tradita e abusata da generazioni di politici vecchi e corrotti, soprattutto in Italia. Per questo abbiamo perso la fede nell’istituzione ed è difficile capire come possa essere adattata, piuttosto che travolta, dalla digitalizzazione. Ma sono convinto che debba essere solo rivitalizzata, perché non penso che la democrazia diretta digitale sia un’alternativa seria. Un tempo avrei fatto un film di denuncia sull’alienazione creata dalle nuove tecnologie. Oggi lo considero alla stregua di un fenomeno metereologico acquisito. Si può reagire, ma siamo di fronte a un fatto». Assayas nello stesso tempo esplora le conseguenze della digitalizzazione sul piano personale, visto che la tecnologia agevola e moltiplica la possibilità di doppie vite, cui si riferisce il titolo originale in francese, Double vie, più appropriato del nostro fescennino G ioco delle coppie, che richiama il porno soft anni Settanta. Non centra l’argomento nemmeno la versione inglese, Non fiction: forse è proprio la questione affrontata a essere imprendibile. Ne Il gioco delle coppie si citano due soli registi, Haneke, solo per creare una situazione paradossale, e Bergman. «Luci d’inverno è un film incredibile, costruito sull’idea di una fede che ha attraversato i secoli e che si trova al centro di una trasformazione. Le immagini più forti sono i momenti in cui il pastore continua a celebrarne il culto, da solo, nella chiesa, pur rendendosi conto che il mondo è diventato qualcos’altro».
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