Pyongyang mon amour: Il ritorno nei luoghi della passione con un’infermiera ustionata dal napalm: il film più personale del regista francese
Nel 2004 Claude Lanzmann era partito per la Corea del Nord allo stesso modo di Otto Warmbier, lo studente americano morto la scorsa settimana, dopo aver scontato uno dei quindici anni di reclusione cui era stato condannato dalle autorità di Pyongyang per aver “rubato” uno striscione di propaganda nella camera dell’hotel dove soggiornava. Warmbier aveva contattato un’agenzia turistica proprio come aveva fatto il regista e sceneggiatore francese tredici anni fa, ottenendo un visto di quattro giorni assieme a un gruppo di discepoli di Chomsky. Lanzmann faceva ritorno nel Paese asiatico per la seconda volta dopo 46 anni: era stato, infatti, uno dei pochissimi membri della delegazione dell’Europa occidentale che nel 1958 mise per la prima volta piede nel Paese dopo la devastante guerra tra le due Coree.
Esattamente 67 anni fa, il 25 giugno del 1950, l’esercito della Corea del Nord, con il sostegno dell’Unione Sovietica e della Cina, superò il confine del 38esimo parallelo – che dal ’45 dimidiava la penisola asiatica -, entrando nella Corea del Sud, protetta dagli americani. Dopo quattro milioni di morti, molti dei quali per l’uso abbondante del napalm da parte dell’aviazione americana, il 27 luglio del 1953 fu firmato un armistizio fissando come confine proprio il 38esimo parallelo, che separò definitivamente le due Coree. Quella del Nord aveva già preso nel 1948 il nome di Repubblica Popolare Democratica della Corea.
Lanzmann testardamente vi ha fatto ritorno una terza volta, nel 2015, e ne ha raccontato il volto con un documentario, Napalm, fuori concorso alla 70esima edizione del festival di Cannes, dove lo ha incontrato il Sole 24 Ore. Un film anomalo per l’autore, la cui pluridecennale carriera si era fino a ora concentrata sul massacro degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale e su Israele: Pourquoi Israel (1972), il monumentale Shoah (1985), documentario di nove ore sull’Olocausto che ha riscritto quel tragico episodio storico, Tsahal (1994), Un vivo che passa (1997), Sobibor (2001), L’ultimo degli ingiusti (2013).
Napalm parla d’amore, anche se poi la passione platonica vissuta nel 1958 con l’infermiera della Croce Rossa nordcoreana Kim Kum-sun, diventa anche il pretesto per spiegare le sofferenze di un popolo, rialzatosi dopo una guerra devastante, ma poi ricaduto sotto le durezze del regime politico in cui, secondo Human Rights Watch e Amnesty International, il livello di rispetto dei diritti umani è uno dei più bassi del mondo. Secondo l’Onu gli abusi spaziano dalla detenzione arbitraria alla tortura, dal negato diritto al cibo alla soppressione della libertà di pensiero e movimento. Sulla Domenica del 5 ottobre 2014 (a pagina 22), Cammilla Tagliabue aveva intervistato Shin Dong-hyuk, nato nel gulag nordcoreano “Campo 14”, in cui era stato educato alla delazione e alla paura, tanto da far impiccare madre e fratello dopo averli denunciati per violazione di una delle regole del campo. Shin Dong-hyuk è il protagonista dello sconvolgente documentario Camp 14: Total control zone, vincitore del Festival du film et forum international sur les droits humains di Ginevra nel 2013, che Lara Ricci aveva raccontato su Domenica del 17 marzo 2013 (a pagina 20). Lanzmann, che ha dedicato la sua vita all’impegno politico attraverso i suoi scritti – è ancora direttore della rivista «Les Temps Modernes» – e il suo cinema, con Napalm offre agli spettatori la sua opera più personale, in cui sulla denuncia delle violazioni del regime nordcoreano attuale prevale il sentimento. Lanzmann tradisce qualche fatica, soprattutto fisica, e il desiderio di non uscire troppo nelle sue risposte dalla trama del documentario. «Questo non è un film politico. Per tutta la prima mezz’ora si parla della relazione dell’uomo con la morte e con il desiderio di eternità che ogni civiltà ha elaborato». Nel film il regista, sorridente, si mette a confronto con le gigantesche statue bronzee di Kim Il-sung e Kim Jong-il, ai piedi delle quali gli sposi lasciano mazzi di fiori: «La Corea del Nord si rapporta con l’eternità attraverso queste statue alte venti metri».
Napalm è strutturato nell’originale maniera di Lanzmann, mescolando immagini a pensieri e riflessioni in prima persona: «È la formula che ho utilizzato per realizzare Shoah. Anche lì ero il personaggio principale: parlo, faccio le domande. Ma ora ci vuole coraggio a mostrare questa faccia vecchia, piena di rughe. C’è stato un momento in cui mi sono visto sullo schermo e mi sono odiato. Non sento i miei anni. Se mi chiedono qual è la mia età rispondo che non ce l’ho».
A 91 anni Lanzmann rimane un seduttore, lo si vede in alcune scene del film, mentre visita il Museo di guerra con la guida di una giovane e graziosa sottotenente con cui, galante, civetta. «Quando sono arrivato per la prima volta nel 1958 avevo 33 anni, l’età di Cristo quando morì. La gente era molto simpatica, generosa, civile, nonostante avesse subito feroci bombardamenti, perdendo milioni di vittime civili: un’orribile guerra, da cui non si può prescindere se si parla di questo Paese. E ciononostante, la situazione non era catastrofica. Era un regno di donne dolci, molto aperte, belle e semplici». Il legame con l’infermiera nacque perché il regista non aveva retto al tour serratissimo, costellato di molteplici “picnic di stato”: si era ammalato e aveva bisogno di iniezioni di vitamine. Per questo arrivò Kim Kum-sun, assieme a una delegazione nordcoreana che volle assistere all’operazione. Dopo diverse rimostranze di Lanzmann che invocava la privacy, il regista e l’infermiera riuscirono a rimanere soli; scaturì un bacio e poi il desiderio di rivedersi. «È stato un vero colpo di fulmine», racconta Lanzmann. I due si intendevano solo attraverso i gesti. Poi capirono che avevano in comune un’unica parola, che affiorò spontanea quando lei si scoprì il torace per rivelare la cicatrice di un’ustione: napalm. Quella che era stata un’irresistibile attrazione fisica si trasformò per Lanzmann in empatia e amore. Per questo, a distanza di sessant’anni, il regista di Shoah si è incaponito a rendere omaggio alle sofferenze di un popolo attraverso quella storia, che riporta a Hiroshima mon amour (1959)di Alain Resnais.La relazione venne scoperta e lei interrogata: Lanzmann la difese minacciando il regime di fare una pessima campagna all’estero sulla violazione della libertà e dei diritti. Di lei al regista è rimasta solo una lettera, giunta sei mesi dopo il suo rientro, in un linguaggio caricaturale di retorica comunista. Ai tempi Lanzmann viveva ancora con la scrittrice Simone de Beauvoir, di cui fu compagno dal 1953 al 1959, e con cui frequentava il gruppo degli intellettuali esistenzialisti, tra cui Jean-Paul Sartre. «Simone ha amato tutti i miei film anche se non poteva vederli perché era cieca. Le sarebbe piaciuto anche questo».
Lanzmann non sa che fine abbia fatto Kim Kum-sun, che aveva già descritto nel suo libro di memorie, La lepre della Patagonia (Rizzoli, 2010). Alla luce del tragico epilogo della vicenda di Otto Warmbier, il loro fu un rischio notevole, che Lanzmann ha nuovamente corso effettuando le riprese nel viaggio del 2015, visto che gli era stato negato il permesso di girare, nonostante avesse proposto alle autorità di fare un film sul taekwondo come copertura delle sue reali intenzioni. In Napalm ci sono scene piuttosto esilaranti in cui l’espressione divertita e sbalordita di Lanzmann fa da contraltare a una donna, cintura nera di arti marziali, mentre liquida un manipolo di colleghi maschi e fa a fette un pezzo di compensato. Nonostante la vigilanza serratissima – spesso fisica, da cui lui si divincola con fastidio – Lanzmann riesce anche a riprendere il ponte dove si svolse uno degli incontri furtivi con l’infermiera.
Molti dei film di Cannes, il festival che ha scelto per presentare Napalm, quest’anno si focalizzavano sull’immigrazione. Il 17enne che organizzò la Resistenza nel suo liceo a Clermont-Ferrand e che è stato docente all’Università di Berlino durante la Guerra Fredda, da sempre militante, farebbe ora un film su quello che è il vero punto dolente d’Europa? «È una domanda molto difficile cui rispondere. Le migliaia di uomini che muoiono in mare sono il risultato di una politica poco accorta in Libia e in Medio Oriente. Mi sento colpevole per tutte queste morti, per i rifugiati. Ho vissuto la Seconda guerra mondiale ed è stata terribile. Ma era una guerra circoscritta. Ora ci sono molte, molte più vittime».