Di Cristina Battocletti
I membri della delegazione russa che ieri hanno presentato il film Leto di Kirill Serebrennikov, in concorso alla 71esima edizione del festival di Cannes, hanno portato sul red carpet grandi cartelli bianchi con scritto il nome del regista, o indossando sui vestiti di gala una spilla con la foto del regista e magliette con la scritta “Liberate Kirill”. Il regista russo non ha potuto raggiungere infatti la Croisette perché soggetto in patria a misure restrittive, fatto che lo accomuna a un altro artista quest’anno in gara, l’iraniano Jafar Panahi, impossibilitato anche lui a muoversi da Teheran.
Leto, che significa estate, racconta gli anni in cui sta per arrivare la perestroika, assieme ai jeans e ai dischi di contrabbando di Lou Reed, David Bowie, Led Zeppelin.
Mike (Roman Bilyk), re della scena rock sovietica, incontra a Leningrando Victor (Teo Yoo) e rimane incantato dalla sua nuova forma espressiva musicale dirompente. Nonostante il carattere schivo di Victor, lo introduce nelle esibizioni permesse dal comitato sovietico e agevola la registrazione del suo primo disco. Non solo, lo coinvolge nella sua vita intima, nel ménage con la moglie Natasha (Irina Starshenbaum) e il loro piccolo figlio.
Attraverso questi personaggi Leto, in bianco e nero, racconta gli esperimenti di amore libero, allucinazione e libertà che si erano già realizzati dall’altra parte della cortina di ferro.
Di fatto, il bellissimo film musicale di Serebrennikov, raccontando la leggenda del rock sovietico Viktor Tsoï, è lo specchio alla mancanza di libertà di espressione che oggi ha impedito a Serebrennikov di raggiungere la Francia. La pellicola narra in maniera grottesca i controlli del regime sovietico negli anni 80 per tentare di raffreddare gli impulsi ribellistici istigati dal rock, permettendo solo concerti in cui l’ascolto avviene da seduti, senza la possibilità di effusioni o sconvolgimenti che, secondo il regime, corrompevano e deviavano la gioventù dagli ideali comunisti. Ogni tanto Serebrennikov inserisce dell’animazione in cui un personaggio modifica la realtà secondo quelli che sarebbero i desideri di evasione e di rivolta dei protagonisti della scena rock di allora. Un film che fa battere i piedi allo spettatore e che consacra il regista, già noto per Izmena (2012) e Parola di Dio (2016).
E’ intanto finita bene la lunga diatriba su L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, che ha alle spalle una gestazione ultradecennale e che chiuderà la rassegna francese. Lo ha deciso ieri il tribunale di Parigi respingendo il ricorso del produttore Paul Branco, che aveva chiesto di non proiettare il film per dissensi con Gilliam. Passato anche lo spavento dell’ictus leggero, il regista è pronto a raggiungere la Croisette.