Romanzi da incubo: Pupi Avati e Andrea Gentile portano nelle librerie “Il signor diavolo” e “I vivi e i morti”

Esattamente un mese prima del passaggio ravvicinato alla terra della cometa di Halley, il 20 maggio 1910, il direttore della società psicoanalitica di Vienna, Sigmund Freud, organizzò un convegno per riflettere sul numero crescente di suicidi, in particolare tra i giovani. Pascoli, Tolstoj e Blok dedicarono all’astro invettive, suppliche e versi per scongiurare la malasorte, secondo loro incombente. Si consultavano le stelle per predire il futuro nonostante la ruggente industrializzazione andasse a braccetto con i lumi. Era il periodo a ridosso della Prima guerra mondiale e dal baule della letteratura saltavano fuori incubi e irrazionalità che prendevano forma in libri come La nube purpurea di Matthew Phipps Shiel del 1901 e L’altra parte di Kubin del 1909. Colpisce in questi mesi la pubblicazione ravvicinata di tre romanzi di autori italiani -, Pupi Avati con Il signor diavolo (Guanda), Andrea Gentile con I vivi e i morti (minimum fax) e Paolo Maurensig con Il diavolo nel cassetto (Einaudi, già recensito lo scorso primo aprile su queste pagine)- che suggeriscono regie arcane per le loro storie. La coincidenza merita una riflessione perché queste case editrici non hanno un cuore noir e perché il ricorso al magismo sembra dire qualcosa sulla profonda incertezza che ci circonda, nonostante gli autori non tocchino la contemporaneità. Avati, infatti, retrocede agli anni Cinquanta, mentre Gentile è sospeso in un tempo senza cifre. Avati racconta di un untuoso funzionario, Furio Momentè, che, in virtù della sua appartenenza al mondo cattolico, si trova prima agevolato nell’assunzione al ministero di Grazia e Giustizia e poi, e a causa del suo credo, relegato a curare umilianti scartoffie. L’opportunità del riscatto si presenta nell’indagine su un omicidio in odore di satanismo, accaduto in Veneto, che rischia di mettere a repentaglio l’egemonia della Democrazia Cristiana nella zona. Nella frazione di Lio Piccolo un ragazzino uccide un coetaneo con gravi problemi fisici e mentali che, con la sua presunta natura diabolica, avrebbe causato prima la morte e poi riportato in vita Carlino, il migliore amico dell’omicida. I vivi dialogano con i morti anche nel romanzo di Gentile, ambientato a Masserie di Cristo, luogo di «piogge, viscere della terra, buio», in un Sud polveroso e atavico, che l’autore, originario di Isernia, conosce bene. Qui la Natura è dea o demone e ha il suo arcangelo nell’Ispettore Agrario, che vigila e rivolta le memorie. A Masserie si intrecciano guerre intestine e ciascuno paga perché «la colpa ce l’ha nel sangue». Come nel romanzo di Avati, sono i ragazzi le vittime per eccellenza e Gentile accorda la sua pietà alla giovane Assuntina, figlia del cantoniere, che scompare, e alla piccola Italia, forzata dal padre a eseguire il suicidio di quest’ultimo. Le madri in entrambi i romanzi sono creature mostruose, fautrici di punizioni apocalittiche nelle cantine o nei manicomi. Avati, di cui ricordiamo già l’“esperienza mefistofelica” come regista nell’inquietante La casa dalle finestre che ridono (1976), ha scritto un romanzo secco, tanto limpido nella lingua da lasciare ai contenuti l’oscurità: l’invidia, la meschinità degli stupidi e dei fragili.


L’ unica deviazione stilistica del regista, al suo secondo romanzo, è nei verbali, letti dall’ispettore Momentè senza riuscire a trovare negli interrogatori presunte forzature, paventate dalle forze scudocrociate per mettere in cattiva luce la Chiesa. Avati, come Maurensig, riproduce un’atmosfera clericale, che bagna le ossa nell’Emilia in cui il regista è cresciuto. E rinnova situazioni che figurano anche in tanti suoi film: le credenze e le superstizioni contadine, la sensualità stagnante delle camere d’albergo, il calore e le ingenuità di un tempo andato, nonostante le sue imperfezioni. Gentile, invece, spinge le radici della sua scrittura nel paganesimo, dove vegliano uomini dalla testa di cervo; vi è un humus preistorico, profondamente materico, dove i cervelli si spappolano sotto le ruote di un cingolato in salsa grandguignolesca e i bambini «sono involtini di interiora. Sguisciano come vermi di carne cruda». I nomi delle persone sono spaventosi o naïf: Tebaldo, Beberto, Cowboy, Taglialegna, Bodo; così toponimi: Femminamorta, Taverna Soffocata, Torre di Nebbia. Avati si legge di un fiato, facendo fatica a riprendere il contatto con la realtà; Gentile con la pazienza e la reverenza di chi ha tra le dita un’opera epica, con dialoghi smilzi come l’anima della gente, inserzioni di lettere ed elenchi. L’autore sperimenta generi e si mette a ragionare con le cose, per esempio il cimitero: «Sei sempre uguale a te stesso: i tuoi figli vengono chiusi con acido e fiamma». Streghe, diavoli, spiriti maligni, qualunque cosa purché non sia la verità. E i due autori sono molto bravi a insinuare il dubbio che la verità sia proprio quella descritta.
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Pupi Avati, Il signor diavolo, Guanda, Milano, pagg. 202, € 16
Andrea Gentile, I vivi e i morti, minimum fax, Roma, pagg. 548, € 16