«Ho scelto di lavorare dove tutto comincia, dalla nostra soglia di tolleranza», così una sindacalista spiega a Nina (Cristiana Capotondi), protagonista di Nome di donna di Marco Tullio Giordana, l’origine e la mala radice culturale della disparità di genere: risiede negli uomini che si macchiano di molestie sessuali, come nelle donne che non denunciano, tacciono, omettono. Il film inizia con il trasferimento di Nina da Milano in un paese della campagna lombarda per lavorare in un istituto geriatrico di lusso, gestito dalla curia locale, dove gli anziani hanno il piglio lucido e aristocratico della regina delle scene Adriana Asti.
Nina, che ha perso il lavoro da restauratrice, riesce ad avere il posto grazie alla raccomandazione di un parroco, don Gino (Renato Sarti), amico della madre. Potrebbe vivere appoggiandosi al compagno Luca (Stefano Scandaletti), ma vuol dimostrare a se stessa di essere autonoma e reattiva all’abbandono dell’uomo che non ha voluto riconoscere la figlia alcuni anni prima. Per questo il suo desiderio di autosufficienza è impermeabile anche alle umiliazioni che il capo del personale, don Roberto Ferrari (Bebo Storti), le infligge al primo colloquio, mescolando impropriamente professionalità e sfera personale. Una piccola predica sull’inadeguatezza dello smalto nero sulle unghie e sulla sua condizione di ragazza madre, dove la carità cristiana è rimasta congelata nella spilla a forma di crocifisso che Ferrari porta sulla giacca. Nina è comunque contenta dello stipendio, della casa che la struttura le mette a disposizione, della scuola che frequenta la figlia, dell’ambiente lavorativo, fino a quando riceve la convocazione da parte del capo, Marco Maria Torri (Valerio Binasco), a presentarsi nel suo ufficio dopo le otto di sera. Nina, preoccupata, si consulta con le colleghe che reagiscono rumoreggiando alla notizia ma abortiscono ogni commento. L’incontro ha i riti dell’informalità, un bicchiere di vino, parole che sottolineano una presunta condizione di fragilità di Nina. Fino all’attacco, il “corpo del capo” premuto contro il suo, una violenza che non è tanto fisica – Nina riesce facilmente a divincolarsi – quanto psicologica: il lavoro non è un diritto/dovere, ma una concessione per cui bisogna pagare pegno. Nina tarda a denunciare al sindacato l’abuso, forse perché una donna quando riceve un’avance in un contesto sbagliato avverte nel profondo la colpa di averlo provocato. Ha imparato a sentirsi così sin da adolescente, quando la gabbia toracica, allargatasi da poco, si è trascinata dietro un commento lascivo da parte di un uomo maturo, ancora più audace nella consapevolezza che una ragazzina non ha gli anticorpi per difendersi. Da allora è un crescendo che passa dallo sguardo impudente, alla mano di un collega che, in maniera fintamente distratta e innocua, cade sul fianco, ai commenti sul vestiario, a illazioni sulla vita privata, spesso avallate dalla logica del chesaràmai. Un modo per mettere la donna in un angolo, ricordandole che è soprattutto corpo. Giordana, assieme alla cosceneggiatrice e autrice del soggetto, Cristiana Mainardi, ha il merito di aver voluto ragionare sulla più subdola e attuale delle discriminazioni dell’Occidente, il sessismo, molto in anticipo rispetto alla bufera Weinstein. E soprattutto sulla cultura di accettazione del maschilismo da parte delle donne come una sorta di irruenza mediterranea, da cui in fondo si può rimanere anche lusingate. In Italia non ci sono le disparità macroscopiche del Terzo mondo: le ragazze si laureano, più in fretta e meglio dei ragazzi e trovano lavoro. Ma un’indagine Istat, svolta tra il 2008 e il 2009, come sottolinea la sceneggiatrice, ha accertato che 10 milioni e 485mila italiane, in un arco di vita compreso fra i 14 e i 65 anni, hanno subito ricatti sessuali sul lavoro o molestie in senso lato. Il film di Giordana ha il pregio di far emergere con la tensione del thriller un contesto di quasi “normalità” , visto che non c’è la violenza efferata dello stupro (che è reato contro la persona, e non più contro la morale, solo dal 1996). In questo sta la sua forza di denuncia del film, cui si perdonano anche le imperfezioni. Nome di donna non ha il passo registico de La meglio gioventù (2003), nella seconda parte scolora quasi nella fiction televisiva, dove i dialoghi spiegano troppo, soprattutto quando insistono sulla condizione di inferiorità di Nina. Ma nella prima parte il film rende perfettamente l’angoscia di una situazione equivoca. Giordana ha guidato in maniera eccellente Cristiana Capotondi, bravissima nella sua parte di donna “qualunque”, che si ribella all’ingiustizia di un comportamento poco ortodosso. Gli altri attori, di grande esperienza teatrale, Bebo Storti e Renato Sarti, che molto hanno lavorato assieme, Valerio Binasco, Adriana Asti, Michela Cescon rendono l’atmosfera da incubo della provincia del Nord, dove regnano perbenismo e omertà e imperversano le caste, come ultimamente è accaduto solo nel bellissimo Capitale umano di Paolo Virzì. Dopo l’urgenza della denuncia de I cento passi (2000), Giordana ha fatto un passo in avanti per il diritto al lavoro e la dignità delle donne. In nome di un cambiamento.
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