Raccontano le malattie delle società inceppate i due migliori film offerti finora in concorso dalla 68esima edizione della Berlinale: Dovlatov di Alexey German Jr e Las Herederas di Marcelo Martinessi. Il regista russo, già Leone d’argento per Soldato di carta nel 2008 e Orso d’argento per Under Electric clouds, ha seguito lo scrittore Sergej Dovlatov, vittima, insieme all’amico Joseph Brodsky e ad altri intellettuali della Leningrado degli anni Settanta, dell’ostruzionismo del regime nei confronti della cultura non allineata allo spirito del partito comunista.
Una macchina burocratica che impediva alle sue giovani e migliori menti la pubblicazione di lavori critici e di introspezione. German Jr tallona con lunghi piano sequenza gli insuccessi letterari di Dovlatov, dapprima punteggiati da una vena dapprima surrealistica, che mette a nudo l’idiozia della propaganda, poi sempre più disperata, in cui balugina l’unica salvezza dell’emigrazione. Milan Marić è un Dovlatov che restituisce come una seconda pelle l’ironia malinconica dello scrittore, le fragilità, anche sentimentali, e le frustrazioni di artista. Las Herederas del paraguayano Martinessi osserva la crisi economica della società latinoamericana attraverso le porte di una casa nobile in cui alla proprietaria, Chela (Ana Brun), non resta che vendere la mobilia.
Chela è una donna di mezza età, protetta dalla compagna Chiquita (Margarita Irun), che si ostina a conservare a Chela i privilegi altoborghesi cui è abituata dalla nascita. Prima di finire in prigione per frode, Chiquita si premura di istruire una nuova domestica che vegli sulla depressione di Chela quasi volta alla paranoia, fino a che la vita la pone per gioco a lavorare come autista. Las Herederas racconta un contesto sociale da una prospettiva omosessuale che non ha mai nulla di urlato, anzi, è tanto più benvenuta in quanto riveste i contorni della normalità. Per il resto la kermesse tedesca ha dato voce a tutti i generi del cinema: è stata inaugurata da un film riempi-sala, Isle of dogs, di Wes Anderson, che si è trascinato una manciata di eccellenti super star per il red carpet, da Bob Balaban, a Tilda Swinton, alla giovane e talentuosa Greta Gerwig, candidata all’Oscar con Ladybird. I divi danno voce al secondo film di animazione di Anderson, realizzato con la tecnica dello stop motion di Fantastic Mr Fox del 2009. Allora la storia era di Roald Dahl, ora il soggetto è originale e racconta l’esilio della specie canina in un’isola dei rifiuti nel Giappone del 2037, a causa di un’influenza letale per l’uomo. Un ragazzino , in cerca del suo animale, sarà in grado di innescare la rivolta e di riportare la relazione umano-canina nell’alveo della reciproca indispensabilità. Caustico, forse ancor più per l’immobilità facciale dei modellini, il film a volte è schiavo della perfezione per i dettagli che Wes Anderson, sarto di gran lusso del cinema, sa assicurare. Ma anche per dar sfogo a questo sfoggio la storia si dilunga senza brillare di inventiva. Dimenticabile Black 47 di Lance Daly, per fortuna fuori competizione, il cui unico pregio è quello di fare luce sul dramma patito dagli irlandesi decimati dalla carestia sotto la dominazione inglese a metà del 1800. Damsel di David e Nathan Zellner sperimenta una western comedy che mette sul piatto due grandi attori come Robert Pattinson e Mia Wasikowska. Pattinson è un giovane pioniere, sciocco paroliere di canzoni, imbranato e ridicolo bellimbusto, che attraversa il vecchio e selvaggio West per impalmare la donna dei suoi sogni, Penelope-Wasikowska, che nel frattempo si è già sposata. La pellicola, sempre a metà tra Sam Peckinpah e i fratelli Coen, non decolla mai e Wasikowska, più di Pattinson, è il vero pilastro di ogni gag. Psicologico come lo sanno essere i buoni film francesi è Eva di Benoit Jacquot, che si affranca dalla versione del 1962 di Joseph Losey, basata sul romanzo Eve di James Hadley Chase. Jacquot propone infatti il protagonista Bertrand (Gaspard Ulliel) non come uno scrittore fallito che giunge al successo grazie a un manoscritto rubato, ma come un impostore qualunque, che approfitta di una fortuna arrivata per caso. Il rapporto di soggezione tra Bertrand e la prostituta Eva (Isabelle Huppert) ha i contorni sfumati di un rapporto di forza quasi reciproco. E qui sta il bello. Oggi è in gara Figlia mia di Laura Bispuri, che torna in concorso a Berlino dopo Vergine Giurata del 2015. Il film è ambientato in una Sardegna selvaggia in cui fiorisce una contesa filiale tra Valeria Golino e Alba Rohrwacher. Il film promette di inserirsi nell’onda del nuovo cinema italiano che ha come capostipiti Pietro Marcello, Leonardo Di Costanzo, Alice Rohrwacher e Alessandro Comodin. Da tenere sott’occhio anche un’opera coprodotto da Rai cinema: Land di Babak Jalali, nella sezione Panorama. Un viaggio nella riserva indiana americana che si propone come fiction ma è quasi opera documentaria sulla devastazione provocata dall’alcolismo e dalla cancellazione dell’identità, sull’impronta di Louisiana di Roberto Minervini del 2015.
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