Di Cristina Battocletti
Non battere i piedi, non suonare strumenti non ariani, niente “allegro”, niente “presto”, al massimo 5 secondi di musica “negra”. Ai nazisti piaceva Django Reinhardt, anche se il suo essere gitano li turbava. Ma riconoscendone il genio lo volevano a suonare in Germania per rallegrare il morale delle truppe in partenza per il fronte. Di questo racconta “Django”, film di apertura della 67esima edizione della Berlinale, che si focalizza su due anni tragici, dal 1943 al 1945, della vita del jazzista rom nato in Belgio. Il film firmato da Étienne Comar, alla sua prima prova in regia (ma con vent’anni di lavoro alle spalle nel mondo del cinema come produttore e sceneggiatore), ha nel ruolo di protagonista attori eccezionali come Reda Katheb – che già ne “Il profeta” (2009) si era cimentato nella parte di Jordi lo Zingaro – e Cécile de France, indimenticabile in “Hereafter” (2010) e “Il ragazzo con la bicicletta”(2011).
Django non riesce a rispettare le regole che gli impone il “gadjo” (non zigano) impresario, che pur protegge lui e la sua famiglia dalla persecuzione, figuriamoci quelle assurde che i tedeschi vogliono imporre alla sua musica. Lui sa che per volere di Hitler centinaia di gitani spariscono senza più fare ritorno e di essere un “salvato” solo grazie alla sua chitarra. Continua, nonostante l’epoca tragica, a suonare a Parigi, facendo aspettare il pubblico quando ha voglia di andare a pesca, anche se ci sono temibili divise con la croce uncinata ad aspettarlo tra il pubblico. Vuole restare a Pigalle e si fa beffe del contratto con cui potrebbe andare a dilettare Goebbels e Hitler a casa loro, ripulendo il suo talento dal ritmo indemoniato che fa ballare la gente. Per sottrarsi al tour tedesco finge di avere la mano infortunata, ma il trucco non funziona e nemmeno la sua arte può preservarlo dalla pazzia nazista. A vegliare sulla sua sorte e su quella della sua famiglia una donna bellissima e di grandi influenze politiche, Louise de Klerk (Cécile de France), ammiratrice e amante del musicista, che attraverso le sue conoscenze riesce ad ottenere un salvacondotto e i passaporti per mandare in Svizzera Django, la moglie Naguine (la cantante folk ungherese Bea Palya) e la madre (la bravissima Bim Bam Merstein). Ma la fuga si fa difficoltosa e non è mai il momento di attraversare il confine; Django comincia a realizzare che cosa voglia dire essere uno zingaro ai tempi del fuhrer: fame e perquisizioni, allerta continua, sfratti. E il lager: anche se chi miracolosamente vi ha fatto ritorno non sa usare questo termine.
La bellezza del film è soprattutto nel tappeto musicale delle composizioni di Reinhardt, eseguite dal trio Rosenberg, e nelle interpretazioni di Katheb e Merstein, perché dal punto di vista cinematografico “Django” è molto classico nell’impostazione (tranne qualche camera a spalla all’inizio che sta addosso al protagonista), molto televisivo, con qualche scivolata retorica, poco adatto a un festival da cui ci si aspetta di essere sorpresi. La sua importanza, però, sta nella storia, mai abbastanza ricordata, delle persecuzioni naziste, di cui sono stati vittima anche i rom, che, come dice Django all’inizio, “non hanno mai fatto una guerra”.