La geniale esuberanza di Dolan: sempre gli stessi temi ma inchioda fino all’ultimo

Xavier Dolan ripercorre sempre la (sua) stessa sofferenza in combinazioni di solito esasperate; ma poiché è un genio e di quel dolore porta genuinamente le scorie, i suoi film hanno, al netto della loro maggiore o minore riuscita, una gemma di bellezza che pochi sanno trasmettere. È solo la fine del mondo


racconta la storia di uno scrittore di culto, trentenne, omossessuale che torna a casa dopo dodici anni per annunciare la sua morte prossima. Dolan, che ha scritto anche la sceneggiatura, rivela la tragedia fin dalle prime battute e questo è un errore. Sarebbe stato bello scoprire a poco a poco il segreto di Louis, attraverso l’intensità di Gaspard Ulliel che riesce a restituire la “fatica di sopravvivere” con dignità, complice anche la macchina da presa che gli sta addosso stringendo sugli occhi e sui volti di chi gli è accanto. I temi sono quelli cari a Dolan: il ritorno in provincia e la ristrettezza mentale che accetta l’omosessualità come una bizzarria (Tom à la ferme, 2013);

una famiglia zotica, ma alla fine umana e ferita dalla vita (J’ai tué ma mère, 2009);

una madre kitsch, eccessiva, prepotente ma piena di amore primordiale per i propri figli (Mommy, 2014);

una figura maschile che ostenta virilità – in questo caso Vincent Cassel nei panni di Antoine -, ma che dietro la muscolarità nasconde una tendenza omosessuale repressa. Il tutto condito con lo spettro della morte. Un carico da novanta, considerato anche che Dolan non lesina sulle musiche sparate altissime e le immagini psichedeliche che ricordano molto i videoclip con cui è cresciuto. È solo la fine del mondo è una specie di resa dei conti famigliare tra Festen e Segreti e bugie al cui centro c’è un lutto incombente che tutti istintualmente avvertono ma rifiutano. Eppure, nonostante sfidi l’aurea regola del “meno si dice e meglio è”, Dolan riesce a inchiodare lo spettatore fino alla fine. Saranno i dialoghi così vicini al reale (il fratello che si ribella alla presunta superiorità intellettuale che Louis mantiene nonostante il circo che gli si scatena attorno) o la bravura degli attori anche sulla linea femminile: Léa Seydoux nei panni della sorellina Suzanne, che Louis aveva lasciato bambina e che ritrova donna insicura, che si sballa nel seminterrato, tutta intenta a cercare l’approvazione del fratello. La madre, Martin (Neathalie Baye), teatrale, patetica, ma degna di rispetto per il suo coraggio e la sua fierezza. Infine, la cognata Catherine (Marion Cotillard), schiacciata dalla mischia ombelicale, che comprende la gravità della situazione ma tace. Non è la fine del mondo ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes. Forse troppo, perché ci sono diverse sbavature, dettate soprattutto dallo spasmo autobiografico. Il talento indubbio di Dolan – che ha già espresso a soli 27 anni come attore, sceneggiatore e regista – era più urgente in altri film, estremi, ma meno pettinati. Ha tutto il tempo di girarne di eccezionali, se riuscirà a trattenere l’esuberanza.
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Xavier Dolan, È solo la fine del mondo, drammatico, Francia, 95’