Una novantenne s’innamora di un ballerino di decenni più giovane che la visita nell’ospizio in cui vive alle porte di Parigi. I “compagni” di vita rispettano e riconoscono il suo sentimento, e sono essi stessi travolti da uno scossone vitale che attraversa l’intera casa di riposo. Un’energia che fa improvvisare loro un movimento fisico, un sussulto della mente insperato. Così si potrebbe riassumere “Una ragazzina di 90 anni”, codiretto da Valeria Bruni Tedeschi e Yann Coridian, che hanno seguito il coreografo Thierry Thieû Niang in un laboratorio di danza con pazienti malati di Alzheimer presso il reparto geriatrico dell’ospedale Charles Foix d’Ivry.
Blanche Moreau, 92 anni
Il punto nevralgico del film ruota attorno alla paziente Blanche Moreau, di 92 anni, nelle evoluzioni del suo incontro con Thierry, nei mutamenti del suo viso quando il coreografo la fa ballare. Ma anche nell’anziano, costretto nel corpo infermo, il cui fisico riesce per un momento a vincere la legnosità per seguire la musica. O nella vecchina che gira con un pupazzo con l’ossessione di un infanticidio, o in un’altra che si duole per un divorzio che sostiene essere avvenuto quattro anni prima, all’età di 29 anni…
Il risultato è una riflessione poetica, delicata e malinconica sulla diversa capacità del corpo e della testa di reagire alle stimolazioni, perché il flusso vitale non si esaurisce mai davvero.
“Una ragazzina di 90 anni” è stato presentato a Filmmaker (il Festival in programma fino al 4 dicembre a Milano), e verrà proiettato allo spazio Oberdan dal 25 dicembre all’8 gennaio 2017. Il Sole 24 Ore ha incontrato i due registi a Filmmaker.
Il primo impatto con il film è urticante, sia come retaggio di ricordi familiari sia come spettro di quello che potrebbe accaderci.
V.B.T.: Mi sono molto identificata nel personaggio di Blanche, quando ci si innamora in maniera caparbia anche se si avverte che quell’amore è impossibile. In generale mi sono identificata anche con gli altri pazienti, sia con la sensazione della vecchiaia, che con la loro solitudine, la perdita della memoria e i loro ricordi ossessivi. Sono emozioni che conosco bene: quando si resta bloccati con pervicacia a un momento particolare della propria vita, continuare a rimanere nella stessa età; il corpo invecchia ma la persona rimane legata a un momento emotivo decisivo della propria vita.
Y.C: L’inizio per me è stato terribile. Poi, il giorno dopo, una delle signore mi ha dato la mano e sono andato avanti senza più pensarci.
Che reazione hanno avuto i pazienti nel vedervi inglobati nella loro realtà?
V.B.T: Si dimenticavano di noi. La sera ci salutavano, la mattina dopo non sapevano chi fossimo. Blanche si ricordava solo di Thierry perché ne era innamorata. Era un meccanismo strano. A volte si arrabbiavano per la nostra presenza, ma dopo tre secondi si mettevano a ridere contenti che fossimo lì. Anzi, quando mangiavamo in una saletta adiacente e lasciavamo le porte aperte, venivano uno dopo l’altro a sedersi con noi. Secondo me era una grande gioia per loro avere delle persone dall’esterno.
“Una ragazzina di 90 anni” mi ha ricordato “Settimo cielo”, di Andreas Dresen, soprattutto nelle emozioni e nel senso d’estasi che provano gli anziani nel compiere un movimento che pensavano ormai proibito al loro corpo.
Y.C.: C’era una signora asiatica che non si muoveva fino a qualche mese prima. Thierry le ha offerto dei bastoncini, qualcosa si è risvegliato in lei e ha cominciato a camminare.
A un certo punto Thierry ha chiesto di ballare a una paziente che non era Blanche, e questa temeva di ferire i sentimenti della compagna. La malattia mangia loro la memoria ma non li priva delle regole di correttezza sociale
V.B.T.: Le tappe della storia d’amore di Blanche sono le stesse che vive una ragazzina di vent’anni. Penso che Blanche abbia avuto una depressione prima dell’alzheimer. Non si sa da dove venga l’alzheimer, ma si ritiene che gli ansiolitici, gli antidepressivi e la depressione in sé, spesso anticipino la malattia. In Blanche io vedevo una forma di depressione che sfortunatamente so cosa sia per esperienza personale. Riconoscevo i momenti in cui passava dall’euforia ad abissi di solitudine e disperazione come accade nelle persone depresse.
Y. C.: C’è una memoria emotiva molto forte, che funziona in modo misterioso. Un giorno ho chiesto a una donna se si ricordava di me e questa ha negato, poi le ho chiesto come mi chiamavo e ha risposto correttamente, «Yan».
Le musiche sono piuttosto retrò, forse per accordarsi all’età dei protagonisti…
V.B.T.: Non tutte. Le ha scelte Thierry molto istintivamente e noi abbiamo lasciato quelle originali. A parte l’ultima, quella che si sente nei titoli di coda e dà il nome al film: “Una ragazzina di 90 anni”. L’ho scoperta durante il montaggio, l’avevo comprata per mio figlio ed è mia figlia a cantarla.
Che reazioni ha avuto il pubblico dopo aver visto il film?
Y.C. : Qualcuno ha contestato la legittimità di girare il documentario e la domanda ricorrente era se il film avesse fatto soffrire Blanche.
V.B.T.: La vita fa soffrire in generale, perciò un incontro importante rende vivi e, nello stesso tempo, comporta dolore. Noi non siamo andati lì con una bacchetta magica. Certo, c’era anche sofferenza nell’incontro tra Thierry e Blanche perché non si sono sposati. Però ha impresso una vitalità nuova e concreta che ha fatto sì che Blanche camminasse senza bastone e, alla fine del film, parlasse con altri uomini che non fossero Thierry, come invece non accadeva prima. La settimana prima stava morendo e non sapeva nemmeno come si chiamasse, la settimana dopo declamava il suo nome e faceva grandi discorsi . È stata una specie di miracolo che si è operato grazie a questo innamoramento. Noi riportavamo i nostri dubbi al medico, spiegavamo che eravamo preoccupati, ma lui ci rispondeva, «Questa è vita». O c’è la vita e la sofferenza, o c’è la morte.
Ne “La pazza gioia” di Paolo Virzì lei aveva una parte molto dolente..
V.B.T.: Tanto soffrivo in ogni modo, non sapevo dove buttarla, quindi ero contenta di metter la mia sofferenza da qualche parte. E con Paolo ci siamo divertiti molto. È un regista che ama gli attori e sul set c’era anche molta allegria. Mi sono sentita voluta bene.
Che rapporto c’era con la coprotagonista Micaela Ramazzotti?
V.B.T.: Abbiamo intrapreso una specie di road movie, è stato quasi un innamoramento. E l’altro giorno ho capito una cosa semplice che non avevo mai realizzato: che in un certo modo il personaggio di lei era la figlia che il mio personaggio non aveva mai avuto.
Qual è il salto nel passare dall’altra parte della macchina da presa?
V.B.T.: Non sono mai passata dall’altra parte: sono un’attrice che fa dei film come regista. La mia identità è quella di attrice, anche quando scrivo. Non c’è nessun taglio netto.
L’autobiografismo è inevitabile quando si scrive?
V.B.T.:Lavorare non è una terapia. A me piace lavorare e mi riempie la vita, ma non mi aspetto dai film che mi curino. Né dai film che interpreto come attrice, né dai film che scrivo. Questo documentario è autobiografico quanto gli altri film che scrivo.
C’è una differenza tra documentario e fiction?
Nel documentario non c’è volontarismo, uno assiste e accoglie la realtà mentre nella finzione c’è un’azione volontaria, ma nel risultato non vedo differenza.
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