Il Nobel di provincia che diventa un noir: il cittadino illustre è uno dei film migliori della stagione

In sincronia perfetta con Bob Dylan, Daniel Mantovani (Óscar Martínez), protagonista de Il cittadino illustre di Gastón Duprat e Mariano Cohn, rimane tiepido davanti al premio Nobel per la letteratura che gli è appena stato conferito. Ma almeno Daniel si spinge fino a Stoccolma per ritirarlo, pur lanciando un guanto avvelenato al consesso svedese. Quel premio, spiega Daniel durante la cerimonia, decreta la sua morte come scrittore, perché l’arte è per sua natura urticante e il blasone ne esaurisce lo spirito. Esitano il re e la regina ad applaudire, come il resto dell’accademia in ghingheri di fronte all’autore in abiti casual, ma alla fine è ovazione e Daniel ha il sorriso a pieni denti di chi ha vinto una sfida. La verità è che il Nobel cannibalizza Daniel per davvero, rendendolo il guscio di se stesso: preda di copertine di giornali ingigantite, solo nella sua casa spagnola, fredda ed elegante, snocciola dinieghi, che siano convegni, onorificenze, occasioni di beneficienza. Fino a quando una lettera proveniente da Salas, il paese argentino in cui è nato e cresciuto, rompe l’indifferenza che gli impedisce di scrivere da cinque anni.


Salas, che Daniel ha abbandonato trent’anni prima per l’Europa senza più farvi ritorno, è il natio borgo selvaggio che ha alimentato la sua vena creativa, nutrendo i suoi libri di personaggi tragici.Tornando, Daniel ritrova lo stesso mondo rurale e ottuso, con le case basse davanti alle quali le vecchine fanno la posta alle novità. Ma si compiace che i compaesani, benché ignari dei suoi libri, si pregino di aver dato i natali a un genio letterario. Il sindaco di Salas lo accoglie con lo sfoggio di cui è capace: facendo sfilare Daniel accanto alla reginetta di bellezza locale in cima alla camionetta dei pompieri che procede a sirene spiegate; confezionando un mini documentario sulla sua vita in cui piovono angeli e fuochi d’artificio; consegnandogli una medaglia e inaugurando in un parco una statua che lo ritrae. L’implacabile Daniel sembra ammansito; guarda con indulgenza il conduttore di una trasmissione televisiva mentre assicura i telespettatori che lui, Mantovani, beve il succo di frutta dello sponsor; accoglie con affetto Antonio (Dady Brieva), il compagno di scuola spaccone, che ha sposato il suo amore di gioventù, Irene (Andrea Frigerio). Si presta perfino a far da giudice a una gara locale di pittura: ma lì si spezza l’idillio. Le scelte di Daniel offendono l’artista locale, Florencio Romero (Marcelo D’Andrea), che mette in pratica i metodi spicci della passata dittatura, cui la fresca democrazia non ha ancora fatto gli anticorpi perché nessuno reagisce.Da qui un climax in cui a predominare sulla regia è la scrittura tesa e divertita dal paradosso, esaltata dall’egregia recitazione di Martínez (a Venezia ha vinto la Coppa Volpi come miglior interprete maschile). Altri sguardi disincantati e lucidi, da Bellocchio a Bertolucci, hanno messo a nudo la retorica della provincia angelicata, mostrandone violenza, ignoranza e malattia; lo sceneggiatore del cittadino illustre, Andés Duprat, dimostra una penna non comune nel riservare arsenico sotterraneo anche al protagonista, corroso dalla sottile vanità di chi si sente superiore. Ha fatto bene l’Argentina a sceglierlo come candidato al prossimo Oscar come migliore film straniero. L’America Latina recentemente ha portato sugli schermi ottimi film con Pablo Larraín, da Toni Manero a Post mortem a Il club, Pablo Trapero con Il clan, Damián Szifrón con il surreale Storie pazzesche, in cui figurava lo stesso Óscar Martínez. A dimostrare che il budget, non certo hollywoodiano, non ferma il buon cinema
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