Venezia ’73. Le giornate degli Autori aprono con un film sulla Siria: “The war show” racconta la vita un gruppo di giovani amici dal 2011 al 2016

La Siria è un paese che si autodigerisce, mentre i figli ne rivoltano le viscere trasformandosi in tombaroli. Obadiah Zytoon, giovane conduttrice radiofonica siriana, è ripresa mentre contempla il colonnato di un sito archeologico millenario e contemporaneamente guarda i suoi compaesani arrivare in motocicletta, muniti di pale per rubare i reperti e venderli al mercato sommerso dell’arte senza che nessuno osi fermarli. E’ una delle immagini con cui Obadiah si congeda dal suo Paese in “The war show”, film di apertura delle “Giornate degli autori” (passerà il 31 agosto) alla 73esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, diretto dalla stessa conduttrice radiofonica assieme a Abdread Dalsgaard.
Il documentario ci racconta la Siria in soggettiva dal 2011 al 2016, partendo dalla primavera araba all’epilogo degli ultimi fatti di cronaca attraverso le vicende di amici e conoscenti. Obadiah è la prima a presentarsi davanti alla macchina da presa mentre è al microfono della radio dove conduce un programma in cui si diffonde musica proibita dal regime. Poi è lei a prendere le redini del film raccontando il suo Paese attraverso istantanee, dall’euforia della liberazione alle file dei profughi che fuggono oltre confine. La prima parte, la rivoluzione, è ripresa con mano malferma, quasi innaturale per una pellicola che porta anche la firma del regista danese 36enne, già autore di buone pellicole sul mondo delle megalopoli come Bogotà. Le inquadrature poco ortodosse di “The war show” acquistano un senso a posteriori, quando si comprende che quelle prime immagini dovevano solo trasmettere, anche a costo di sfiorare il dilettantismo, la “normalità” di un popolo che di normale non avrà poi più nulla. Così quasi inizialmente si fa fatica a seguire il manipolo di donne coperte dal chador che tra il timido e il divertito cuciono le bandiere siriane per scendere in strada a manifestare. Una di esse che si affaccia all’adolescenza, priva ancora dei tratti di donna, chiede ingenuamente alla regista ”Quanti anni ha il tuo figlio più vecchio?”. E lei risponde che non ne ha di figli, che è una donna libera, mentre quella solo intuisce una verità ancora troppo poco intellegibile per la sua educazione. Conosciamo la ragazzina nel primo dei sette capitoli in cui compaiono gli amici di Obadiah, come fosse il filmino amatoriale di una combriccola di studenti universitari fuori sede. Si inizia nel 2011: Dana fuma la sua prima sigaretta in un tinello in cui c’è anche Lulu avvolta in un chador bianco. Nell’immagine successiva Lulu ha tolto il velo e protesta in strada con i capelli ramati quasi biondi, tagliati da una forbice casuale; si mischia a una folla eterogenea, laica e religiosa, che scandisce lo slogan “pace” per cristiani e musulmani. Lulu è quasi irriconoscibile soprattutto per l’espressione del volto, all’inizio timorosa poi sempre più consapevole della propria forza. Obadiah riprende anche l’altro versante, quello dei sostenitori del dittatore siriano che stendono la mano destra nel saluto romano davanti alla fotografia di Assad, regimi che si assomigliano a latitudini diverse.
Lulu si innamora di Hisham che è un poeta. Il film li coglie sulla spiaggia con i pantaloni corti e le braccia scoperte o mentre corrono sulle moto d’acqua. Arriva Houssam, un ragazzo con la chioma lunga e la camicia sciupata, che racconta il lungo cammino verso la rivendicazione dei diritti, quando la maggior parte del popolo siriano avrebbe voluto ribellarsi ma non ne aveva la forza. Si ride, si canta, uno studente in odontoiatria scherza con la dentiera di un animale su cui si esercita per gli esami, un cane randagio viene accolto in casa lavato e curato. Immagini di una quotidianità tutta privata che avrebbe poco senso sul grande schermo se poi la vita dei protagonisti non fosse stata risucchiata nel tombino della guerra.
Più la mano di Obaldah diventa ferma dietro la macchina da presa, più la situazione politica si complica e quella buona prima mezz’ora, molto vicina al found footage, serve a cementare l’idea di un popolo che ha assaggiato la libertà ed è finito in braccio all’oltranzismo religioso. Dalle prime fughe per gli spari della polizia durante i cortei – la stessa regista si nasconde in un negozio – si passa alle armi vere comprate al confine con il Libano, dalle speranze ai bazooka, compreso un nugolo di bambini che apprendono dai vicini di essere rimasti orfani e alcuni sono così piccoli che non lo capiscono nemmeno.
Giovani disertori, ragazzi che mostrano le cicatrici delle torture, bruciature, ganci nella carne, tagli in testa, pallottole che hanno perforato più volte il corpo. Hasan, emigrato per lavoro in Grecia e tornato per liberare il suo paese, racconta di non avere più visto i suoi figli, rapiti dalla polizia segreta. E’ così abituato all’emergenza che per entrare in una casa si arrampica dal balcone. Invano i compagni lo avvertono urlando che la casa è aperta, che potrebbe semplicemente salire le scale e aprire la porta. Non ha fortuna Hasan, come quasi la maggior parte degli interlocutori di Obadiah.
L’Isis nel frattempo ha distrutto nel maggio del 2015 il tempio di Baal Shamin, le torri funerarie romane, e l’arco di Trionfo, quattromila anni di storia bruciati in qualche ora, mentre l’osservatorio siriano per i diritti umani ha stimato che dal 2011 il regime abbia fatto 200mila prigionieri politici, di cui 13mila sono morti sotto tortura. Anche se si sospetta che le cifre siano approssimate per difetto.
“The war show” prosegue il cammino già indicato da “The returns to Homs” di Talal Derki che ha vinto il festival dei diritti umani di Ginevra nel 2014 (vedi l’articolo di Lara Ricci richiamato nella pagina in alto), in cui si snodano le esistenze di Basset, star della nazionale di calcio, allora 19enne, e di Ossama, 24 anni, attivista pacifista. Obaidah segue invece il destino dei suoi amici.

Uno per uno. Sembrano, in chiave mediorientale, i ragazzi che noi ricordiamo ogni 25 aprile e che hanno combattuto sulle nostre montagne o nelle città contro i nazisti. Solo che il 25 aprile siriano sembra lontano e chi non è torturato in casa diventa spesso carne da macello per gli scafisti. Ed entra in un’altra pagina di cronaca ugualmente crudele.
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