Cannes ’69: il miracolo del dentone sulla Croisette

Risate e applausi per «Toni Erdmann». In gara film di livello,
scandalosi e umoristici. Il glamour soddisfatto da Allen e Foster

Di solito ai grandi festival ci si macera sui mali della società scorrazzando anche con bizzarria (a Cannes finora di qualità) tra i generi più diversi. Ma alla proiezione di Toni Erdmann è successo qualcosa di inaspettato che si è liberato in risate e applausi spontanei. La trama, una giovane donna anaffettiva in carriera e un Edipo negato, era piena di inghippi acquattati, nei quali non è caduta la regista Maren Ade. La storia è quella di Winfried (Peter Simonischek), uomo di mezz’età con un’attitudine insopprimibile alla caricatura di se stesso e allo scherzo, che dopo la morte del cane decide di andare a trovare di sorpresa la figlia Ines (Sandra Hüller), manager di successo a Bucarest. La gita si rivela fallimentare, Winfried finge di ripartire, ma ripiomba nella vita di Ines con un paio di dentoni finti (come il Guglielmo Bertone di Alberto Sordi ne I complessi ) e una parrucca, proponendosi a volte come trainer, altre come ambasciatore sotto il nome di Toni Erdmann agli interlocutori della figlia che mostra di non conoscerlo.


La sceneggiatura, firmata dalla stessa regista tedesca, regala situazioni sorprendentemente comiche, originali e umane nello stesso tempo, riuscendo a non banalizzare il tema filosofico insidiosissimo sottostante: nella vita ci vuole ironia. Aden a 39 anni è al terzo lungometraggio, ha vinto il premio speciale della giuria nel 2003 al Sundance con Der Wald vor lauter Bäumen e due Orsi d’argento (gran premio della giuria e migliore attrice) a Berlino nel 2009 con Alle Anderen. Speriamo che George Miller ne tenga conto nel palmares. Qualche premio potrebbe acciuffarlo (non per la fotografia) anche Sieranevada di Cristi Puiu, capostipite della new wave rumena che nel 2005 aveva vinto Un certain regard con La morte di Mr Lazarescu. Là c’era l’agonia di un anziano, qui si partecipa alla cerimonia commemorativa di un pater familias in un interno slabbrato in cui, in attesa del prete come di Godot, la famiglia è infelice a modo suo. Attorno a Lary (Mimi Branescu), medico di mezza età, si assiepano i peggiori luoghi comuni, incarnati dalla moglie consumista, il fratello dietrologo, la nipote frequentatrice di locali notturni, la vecchia nostalgica del regime comunista.

Piuttosto surreale Rester vertical di Alain Guiraud che racconta le traversie di Leo (Damien Bonnard), uno sceneggiatore con vuoto d’ispirazione, riempito figliando con una pastora di pecore, con l’ossessione per un ragazzino, praticando la sodomia e l’eutanasia insieme. Si esce dalla proiezione senza ferite e con qualche interrogativo, ben presto dimenticato. Peccato, perché Guiraud aveva firmato un intenso film sull’omosessualità, Lo sconosciuto del lago (2013).
Di amore saffico, perversione, pratiche erotiche è intriso anche Handmaiden di Park Chan-wook in cui una ricca ereditiera giapponese è gabbata da due poveri coreani. L’inizio un po’ di maniera è arricchito dal ribaltamento degli intrighi; ci si ricorderà la fotografia di Chung Chung-hoon e i costumi di Cho Sang-kyung. Discorso che vale per la bravissima Suzy Benzinger, costumista di Café society di Woody Allen, in apertura del festival. Ambientato nella Belle Époque, racconta del giovane Bobby (Jesse Eisenberg), trasferitosi dalla Grande Mela a Los Angeles per cercare fortuna nella squinternata Hollywood, dove lo zio Phil (Steve Carrell) è l’agente dei più importanti divi.


Bobby si innamora di Vonnie (Kristen Stewart), che però è l’amante di Phil. Lo zio, essendo già sposato, tentenna e alla fine il cinismo dei lustrini trionfa sui buoni sentimenti. Che Allen sia ormai un’industria personificata o ancora un verace metteur en scène non importa: il risultato è sempre godibile e intelligente con un filo di malinconia in più. Saziato il tappeto rosso con l’eroina di Twilight (Stewart), il fondatore (al cinema) di Facebook (Eisenberg), ecco che piombano gli unforgettable George Clooney e Julia Roberts, protagonisti di Money Monster di Jodie Foster. Foster torna sulla Croisette quarant’anni dopo Taxi Driver che vinse la Palma d’oro nel 1976. Money Monster è un thriller finanziario in cui un risparmiatore, Kyle (il Jack O’Connell che debuttò nell’irsutissimo This is England di Shane Meadows), prende in ostaggio il conduttore televisivo Lee Gates (Clooney) seguendo i cui consigli avrebbe bruciato tutti i suoi averi. Dietro le quinte del rapimento c’è la regista del programma, Patty (Roberts), che scaltramente guida il dramma in diretta, mentre sullo sfondo si staglia la predicozza sui media demoniaci. Piuttosto noioso. Ma più di Foster è arrabbiato con la malaeconomia Ken Loach, habitué della Croisette, che racconta in Io, Daniel Blake l’inceppamento del welfare inglese a danno delle categorie più svantaggiate. Daniel (Dave Johns) è un falegname che non può più lavorare perché ha avuto un attacco di cuore e non riesce a ottenere la pensione di invalidità, stritolato in un kafkiano scaricabarile tra un call center e un quesito online. Il film è credibile nelle vicende e negli interpreti: c’è sempre l’ironia cockney, ma anche un po’ più di amarezza.Quasi fumettistico Ma loute di Bruno Dumont con una recitazione volutamente eccessiva di Juliette Binoche, Fabrice Luchini e Valeria Bruni Tedeschi, che interpretano i membri di una nobiltà novecentesca decadente e svenevole, incestuosa ed egotica. Molto peggiore dei pescatori del villaggio in cui trascorrono le vacanze, che sanno amare i figli, nonostante quel vizietto del cannibalismo. Bruni Tedeschi è condannata al ruolo di aristocratica, che le viene dannatamente bene e che riveste da protagonista assieme a Micaela Ramazzotti ne La pazza gioia di Paolo Virzì.

Una sorta di Thelma&Louise con addendi di politica italiota tra Mani Pulite e Seconda Repubblica. Si ride molto (e volendo si piange). Quest’anno nessun italiano era in concorso, Virzì era alla Quinzaine come Bellocchio con Fai bei sogni. I francesi hanno accolto entusiasticamente il film tratto dall’omonimo libro di Gramellini, senza estrosità registiche ma ben fatto. Bellocchio ha voluto far sapere in maniera decisa di essersi smarcato dal best seller. Eppure se andrà bene al botteghino, come si spera, sarà anche per quel titolo.
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