Amico di Foà, Montale e Olivetti, fu mente dell’Adelphi. Moriva 50 anni fa e pochi lo ricordano
Cristina Battocletti
Si aspettava che un libro lo catturasse per la sua “primavoltità” nell’urgenza di esprimere qualche cosa di unico, anche se lui volle rimanere nell’ombra dell’editoria italiana. E così, sotto traccia, cinquant’anni fa, il 27 luglio del 1965, moriva Roberto, Bobi , Bazlen in una stanza di un albergo milanese. Un anniversario scivolato via senza celebrazioni, nonostante Bazlen abbia inventato Svevo («Difficilmente si sentirà lo sforzo surriscaldato del genio… ogni gesto ha un suo proprio significato… ogni parola un suo profilo preciso», Prefazione a Svevo ) e abbia portato nelle nostre case L’uomo senza qualità di Musil («da pubblicare a occhi chiusi», anche se con qualche remora per il temibile bagno di sangue commerciale «troppo austriaco e lento»).
Era nato da madre ebrea nella Trieste del 1902 sotto l’impero asburgico e da padre originario di Stoccarda, di cui rimase presto orfano. Studiò al ginnasio tedesco, ma divenne irredentista, anche in seguito alla rivelazione da parte di una corpulenta conoscente friulana, quando non era alto nemmeno un metro: «sei un oppressore», gli suggerì proprio per le sue frequentazioni scolastiche. «Mi sono messo d’impegno a diventare un oppresso anch’io… e credo di esserci riuscito abbastanza bene», spiega in I ntervista su Trieste contenuta in Scritti (Adelphi, 1984), opera postuma a cura di Roberto Calasso. Calasso nell’introduzione sottolinea che le origini triestine di Bobi erano un falso aiuto, essendo lui un uomo «post storico», in asse col suo ruolo di «abitatore esperto di un mondo successivo», che metteva in discussione con se stesso e con gli altri, come, spiega sempre Calasso, se dentro di lui ci fosse stato un punto che all’interno era vuoto. Eppure di Trieste era figlio e ne portava i segni. Anzitutto nelle frequentazioni: Saba, Schmitz/Svevo, Stuparich. «Non c’era libro di cui si parlava che gli fosse ignoto… a diciott’anni ne sapeva più di tutti noi, maturi e anziani», riferisce l’autore de L’isola.
Bobi aveva l’ironia laconica dei triestini («Longanesi è un personaggio di indubbio talento. Lo sfrutta molto bene, lo spende molto male»), l’ammirazione per la Natura («i corpi sani e armoniosi», Intervista) e per l’arrovellamento introspettivo alla Svevo, la trivialtà e il nomadismo tipico di chi cresce in una città portuale. Iniziò con Genova, dove visse dal 1923 al 1924 e dove aveva trovato un impiego in una società di esportazioni, dopo aver abbandonato gli studi di economia e commercio. Qui conobbe Montale – che gli dedicò la lirica Mediterraneo in Ossi di seppia, raccolta che Bobi a muso duro definì «ingenua»-, con cui trattenne una lunga corrispondenza (sempre negli Scritti), raccomandandogli i libri di Schmitz, divenuto famoso anche grazie alle recensioni del poeta ligure. Trascorse un breve periodo a Ivrea, dove con Olivetti tentò la naufragata avventura delle Nuove edizioni Ivrea, confluita nelle Edizioni di Comunità. Bobi passò per Milano e in seguito si stabilì a Roma in una stanza ammobiliata, affittata da due sorelle; quando fu costretto ad andarsene non volle più dimora fissa. Sul suo letto, su cui fumava e leggeva, dal 1951 al 1962 elucubrò le sue riflessioni editoriali che l’amico di sempre, Luciano Foà, riportava alle riunioni settimanali dell’Einaudi con Pavese, Calvino e Vittorini. Ed è anche grazie al suo entusiasmo che nelle nostre librerie c’è una fetta della cultura mitteleuropea: Altenberg, Broch, Döblin, Gombrowicz, Hofmannsthal, Hölderlin, Rilke, Zweig. Dopo i primi entusiasmi però il consesso torinese cominciò a considerare Bazlen troppo virato verso l’introspezione. Gli riuscì comunque di sdoganare Jung e Freud, anche se considerava quest’ultimo circoscritto all’epoca e all’ambiente in cui era vissuto, ma era convinto che bisognasse dare aria alla cultura asfittica con cui il fascismo e il crocianesimo avevano immobilizzato l’Italia. Per la casa editrice torinese Bobi era poi troppo attratto dal misterico e dalle culture orientali, «taoista» come suggerisce Calasso. Quelle suggestioni furono raccolte poi da Foà quando fondò l’Adelphi nel 1962.
L’Oriente ricorre spesso nell’unico romanzo incompiuto, Il capitano di lungo corso, pubblicato postumo e tradotto dal tedesco da Calasso. Il protagonista è il Capitano della nave, che sfugge da un amore sfortunato di mare in mare, e ricalca tutti i topoi omerici. Vorrebbe sposare una sirena («come accontentarsi di una donna che vive a terra?»), naufraga su un’isola (ma in una versione finisce nel ventre di una balena), con tocchi di autobiografismo «era vicino alla morte, ma era terribilmente colto». Emerge il suo disagio di vivere da cui non lo guarì l’analisi, «tutto un dolore fisico trapassato da schegge di coscienza», «quando si è provato tutto e niente ci si sente sempre più isolati», «senza vere crisi non ci si libera mai». Era stato ossessionato per un periodo dalla cucina giapponese dei Samurai, racconta Ljuba Blumenthal, la persona a lui più vicina, cui Montale dedicò una poesia, A Ljuba che parte . La confidenza è raccolta nello struggente Lo stadio di Wimbledon (1983) che Daniele Del Giudice scrisse in un omaggio non agiografico alla figura di Bobi. Il volume – da cui Mathieu Amalric trasse un film nel 2001 – è pubblicato proprio dalla stessa casa editrice che fu diffidente nei confronti del suo fiuto. Lo stadio , che vinse il premio Mondello e il premio Viareggio, è una ricerca sofferta e vagata tra Trieste e Londra, di amico in conoscente, per trovare risposta al perché un uomo che aveva contribuito a formare la spina dorsale della nostra letteratura non aveva voluto lasciare romanzo o saggio. «Io credo che non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri. Quasi tutti i libri sono note a piè pagina gonfiate in volumina. Io scrivo solo note a piè pagina », spiegò tra sé e se in un quadernetto di appunti . E ancora nello Stadio Ljuba riporta il pensiero di Bobi: «Ci sono troppi libri. È inutile aggiungerne degli altri. Se non ci fossero più libri la gente dovrebbe pensare con la propria testa». Ne emerge una figura tormentata e a tratti ambigua. «Lui complicava il vissuto degli altri. Unire o dividere le persone, questa era la sua grande occupazione», ricorda tagliente a Del Giudice l’austriaca Gerti Frankl Tolazzi, nel cui matrimonio, e soprattutto sulle sue ferite, Bobi mise pepe. Gerti fu musa dell’omonimo Carnevale di Montale (nelle Le Occasioni ) e scattò la celebre fotografia alle gambe di Dora Markus, che diventarono anch’esse versi: «A Trieste, loro ospite, un’amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia», fu il suggerimento di Bobi. Plagiatore e burattinaio come voleva Gerti o, piuttosto uno, nei ricordi di Ljuba, che «aiutava a cambiare le persone in difficoltà. Questa era la sua passione, il suo capolavoro». «La sua opera è stata la sua vita», dice un conoscente, ma poi Del Giudice si ricorda che era la frase che Katharine Hepburn sussurra a Montgomery Clift in Improvvisamente l’estate scorsa (1959) diretto da Joseph L. Mankiewicz.
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