Romanzi, reportage,
l’epistolario con Saba
e molto altro
dello scrittore morto
50 anni fa e troppo
a lungo dimenticato
Già l’altezza, oltre due metri, lo portava alla riflessione singolare di chi si trova a parecchi centimetri di distanza dalla vita degli altri. Eppure, Pier Antonio Quarantotti Gambini – scrittore, bibliotecario, autore di acuti reportage su «La Stampa» -, quasi ad annullare quel vantaggio, rannicchiava spesso i personaggi nei panni di adolescenti, scrutando la sua Trieste e l’Istria, assediate e divise, tra i due conflitti mondiali e nel Dopoguerra. Nonostante il premio Bagutta, vinto nel 1947 per L’onda dell’incrociatore, il suo romanzo più famoso, la letteratura lo dimenticò pochi anni dopo la morte avvenuta cinquant’anni fa, nel 1965. Gli rende finalmente giustizia Opere scelte, una monumentale edizione (1.450 pagine) – a cura di Mauro Covacich – che raggruppa larga parte dei suoi racconti, romanzi, articoli, compreso l’epistolario con il suo mentore, Umberto Saba, a cui si rivolgeva da allievo deferente con il «lei», dimentico sempre della sua statura, e il poeta gli rispondeva usando il «tu».
Tredicenne è Ario, il protagonista dell’Onda (titolo suggerito da Saba), che, assieme al poco più vecchio Berto e alla sorellastra di quest’ultimo, Lidia, assistono nel 1937 all’ingresso in porto delle navi militari vittoriose dopo la campagna d’Africa. I tre ragazzi, muleria, gioventù triestina, vivono quella scena, gravida di conseguenze storiche, solo di rimando sballottati dall’onda dell’incrociatore. Sono i figli dei custodi del circolo di canottaggio e di vela, dove si svolgono trame (con finale acuminato) di amori, gelosie, aitanza, competizione sportiva, sbruffoneria. Uno scenario da cui il romanzo non si schioda, salvo per una breve digressione al circo. La città sembra quasi un miraggio e rimane sott’acqua la sensualità che Trieste infonde ai figli attraverso i suoi eccessi naturali: la bora che spazza, le rocce che si arrampicano, la vegetazione che spacca il cemento man mano che sale sul Carso. Non c’è il lirismo esploso de Il mio Carso (1912) di Slataper, «Il mare schizza di gioia, e spuma. Che il mare non ama il lento arranchio asmatico dei vecchi, lo sbatacchio affannoso degli inesperti». Il mare di Quarantotti Gambini è severo, non spuma, ma «schiaffeggia le pareti». La sensualità è rappresa nel linguaggio – «orgasmo» è usato spesso nel senso di agitazione, paura, stato di eccitazione mentale – e in certe descrizioni come la «magnifica complessione» di Eneo, la cui muscolarità ricorda il mito del corpo fascista. E ancora, nella mascolinità del vestiario della madre di Ario, sempre in pantaloni, che tra calci e botte si lascia sfuggire un seno dal vestito. Nella smania, presagio dell’età adulta, che il ragazzo avverte per la compagna di giochi Lidia; quest’ultima, da piccoli, sollevava la gonna per fare a lui e al fratello “la riverenza” senza mutandine. Nell’astuzia seduttiva che il “campione” Eneo esercita su tutti (fors’anche verso Berto, ma la vicenda rimane in tralice) da Teorema pasoliniano. Covacich nella meticolosa e partecipe introduzione usa molte metafore del cinema e si potrebbero rispolverare alcuni film tratti dai titoli dello scrittore, soprattutto La rosa rossa (1973) di Franco Giraldi.
Quarantotti Gambini pubblicò il romanzo per Treves nel 1937, grazie anche alla recensione positiva di Montale de I nostri simili (1932), raccolta di racconti comparsa sulla rivista «Solaria».
Ad asciugare la lingua e i dialoghi dell’Onda – punteggiati da “tecnicismi marini”, mandracchio, caicio, skiff, iole, maona -, è la luce accecante in cui sono immersi i giorni dell’adolescente; come annota Covacich sottolineando la lontananza dagli interni grigi sveviani. Un bagliore che si trova anche in Viaggio verso Cherso ne L’isola e altri racconti (1942) di Giani Stuparich, con cui Quarantotti Gambini condivideva il trasporto per l’Istria, dove era nato (a Pisino), dove passava le estati (Semedella), e dove aveva studiato (Capodistria). Una terra che liberava l’infanzia dalla costrizione cittadina: «Si fondeva l’odor d’incenso con l’odore di menta e col salso del mare», scrive Stuparich, che nel 1915 varcò il confine a Cervignano (!), si arruolò volontario contro l’Austria, sotto cui era nato, assieme al fratello Carlo e all’amico Scipio Slataper.
Anche Quarantotti Gambini era stato cittadino asburgico e mal sopportò la nuova amputazione di quella che per lui era e doveva rimanere Italia. Nel 1947 Trieste e il territorio circostante furono divisi in due zone, A e B, la prima controllata dagli americani (Trieste inclusa) e poi restituita all’Italia, e la B dagli jugoslavi, che divenne parte della Repubblica Federata. Lo sgomento di vedere trasformati i luoghi d’origine sotto lo smalto socialista di Tito è raccontato attraverso l’alter ego, Paolo Brionesi Amidei, dall’infanzia all’età della soglia, in Anni ciechi , pubblicato postumo, a cura del fratello Alvise, nel 1971. Il ciclo di Paolo, scaturito dal racconto Le trincee, raggruppa sotto il suo cappello Amor militare(1955), Il cavallo di Tripoli (1956) – per cui Saba gli fece molti complimenti – e I giochi di Norma (1964)- in cui è compreso Le trincee -, riproposti in Opere scelte. Ne fanno parte anche Redini bianche (1967) e La corsa del falco (1969), entrambi postumi. Quarantotti Gambini, quando il passaggio dell’Istria alla Jugoslavia venne formalizzato con il Memorandum di Londra del 1954 (poi ribadito con il trattato di Osimo del 1975), era già nell’esilio volontario di Venezia che durò vent’anni. Fuggì, tra il primo maggio e il 9 di giugno 1945, dopo l’invasione del capoluogo giuliano da parte dell’esercito di Tito. «La mia autobiografia la intitolerei “Un italiano sbagliato”… uno straniero in patria», spiegò in un’intervista a Gian Antonio Cibotto, riportata nel volume. Perché, pur da antifascista, mal tollerava il legame tra comunisti italiani e sloveni che dividevano anche gli uffici nel «Primorski Dnevnik», il giornale sloveno di Trieste.
Questo lo portò a un sentimento genericamente “antislavo”, aggettivo usato per non dare dignità e identità di popolo a sloveni e croati con cui poi era cresciuto. Eppure in Primavera a Trieste (1951) sotto forma di diario, descrive i croati come: «Splendidi ragazzi, e anche educati». Ne condivideva la stazza da levriero, il senso panico della Natura, quell’amore smodato per Trieste di cui c’è sempre traccia anche nei libri di Boris Pahor. Immersi «nell’oscurità l’altopiano carsico pare un ampio trampolino di lancio. Non si scorge il mare, ma è tanto più presente e vero, in quel buio», (La città nel Golfo, Bompiani, 2014). O nell’afflizione di certi versi dello sloveno Srečko Kosovel «Il cuore di Trieste è malato, perciò Trieste è bella. La pena fiorisce nella bellezza».
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Pier Antonio Quarantotti Gambini, Opere scelte, a cura di Mauro Covacich, Bompiani, Milano, pagg. 1450, € 35,00